Marx può aspettare, recensione: Bellocchio si confronta con il suo passato

Marx

Dicembre 2016, la famiglia Bellocchio si riunisce attorno ad un tavolo in un circolo di Piacenza, per festeggiare. O forse, per rivedersi un’ultima volta. Piacenza è la stessa città in cui, l’8 novembre 1939, a guerra iniziata (non ancora però per l’Italia fascista), nascono Marco e Camillo Bellocchio. Ciò che colpisce subito è la distanza che intercorre tra la nascita dei suoi fratelli, ben tre ore. Tre come le volte che Camillo, per la paura della madre della condanna “alle fiamme dell’inferno”, verrà battezzato. Purtroppo, “l’angelo” Camillo non è seduto a questo tavolo. Qualcosa di più concreto di quelle fiamme dell’inferno, e di più profondo, quella malinconia che il suo sorriso celava, lo hanno portato via più di cinquanta anni fa. “Un mistero”, come dirà il fratello maggiore Alberto.

Marco Bellocchio in Marx può aspettare (trailer) andrà dritto al punto: questo film è un atto necessario, non tanto per lacrimevolmente incolparsi e commiserarsi, più che altro per riconoscere, insieme ai suoi fratelli, le proprie responsabilità, il non aver compreso quanto profondo fosse il dolore provato da Camillo. D’altronde quel gesto estremo compiuto nel lontano dicembre del 1968 non è stato nascosto solo alla madre; quel gesto estremo è diventato anche per loro un incidente, perché forse non avevano avuto tempo di fermarsi e osservare, di capire (la toccante scena finale sul ponte). Alberto, Marco e Pier Giorgio erano occupati a salvare il mondo, dovevano scrollarsi di dosso quell’etichetta di borghesi. Per Camillo però, in una risposta dal sapore ancor più duro dopo aver rivisto con nuova consapevolezza la scena de Gli occhi, la bocca in cui viene citata, “Marx può aspettare”.

Forse, sotto sotto, Marco lo sapeva. E a testimoniarlo sono i suoi stessi film, che prima di salvare il mondo devi salvare te stesso e soprattutto che con i “se” e con i “ma” non si fa la storia. In quell’universo affettivo famigliare, in quel “deserto arido”, altro non regnava che un primordiale istinto di sopravvivenza (per molti membri della famiglia le prime occasioni di lavoro diventarono occasione per lasciare Piacenza). Molte sono le voci che ascolteremo, dai componenti della famiglia Bellocchio fino a quella del padre gesuita Virgilio Fantuzzi, che ha intercettato nelle pellicole del regista “apologeta” una confessione (l’emblematica e ambigua bestemmia ne L’ora di religione).

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Ma tutto conserva quell’alone misterioso cui accennava Alberto: chissà cosa avrà portato Camillo a compiere il gesto definitivo. Forse il suicidio di Tenco, il non aver saputo amare la sua compagna, il non aver trovato una “sistemazione” o l’aver sbagliato nello scegliere la professione di insegnante, o semplicemente quel senso di fallimento cui accennava nelle sue lettere. E in questo specifico senso di fallimento, la vicenda di Camillo non è molto lontana da ciò che oggi molte persone vivono (o hanno vissuto): il timore dell’aspettativa, personale o altrui, il successo in un determinato ambito e il consolidamento di una posizione. Tutto ciò semplicemente commuove, ci avvicina ulteriormente allo schermo e all’esperienza che il regista ci offre scavando nelle radici dei suoi legami famigliari.

Marco Bellocchio con Marx può aspettare ci consegna un film estremamente intimo, un racconto liberatorio dove il confronto con la figura fraterna viene accostato ad un’ulteriore riflessione sulle immagini del suo cinema, sui suoi fantasmi che hanno scritto (e forse continueranno a scrivere) la storia del cinema italiano.

Marx può aspettare, dal 15 luglio in sala per 01 Distribution, è stato presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes (sezione Premiere) come parte di un evento speciale culminato con la consegna a Marco Bellocchio della Palma d’oro alla carriera.

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