Continua l’offerta del Pesaro Film Festival 2023 con il suo secondo giorno di concorso a partire da The Apocalyptic is the Mother of All Christian Theology, film di Jim Finn. Si presenta come un’omelia iconoclasta che dialoga con la storia della propaganda cattolica americana e la vita di San Paolo. Un viaggio psichedelico, reso così per cercare di dare allo spettatore la sensazione di estasi che doveva restituire la lettura della lettere dell’apostolo, che ci conduce attraverso follie di ogni tipo, l’amalgama di religione e consumismo. Giochi da tavolo ispirati a grandi classici, quali Monopoly e Il gioco dell’oca, giochi di carte, videogiochi, santini, programmi tv di dubbio (per usare un eufemismo) gusto nel quale si parla di morale corrotta attraverso pupazzi, vecchi film. Questo coacervo di allucinazioni collettive sono un bombardamento di comicità profana, alimentato dalla voce narrante dello stesso Jim Finn che alterna momenti di racconti storiografici/biblici alla stesura di un glossario necessario per la comprensione della retorica esaltata. Per la durata complessiva di 60 minuti, il regista americano ci regala un trip d’acidi sprezzante verso l’ideologia dominante, un calcio al buon costume che, senza mai sfociare in volgari oscenità, semplicemente mostrando la realtà del mondo devoto, spazza via l’imperante scala di valori, non dimenticandosi mai del mezzo con cui si approccia all’argomento.
Si passa dunque per Unabridged Maneuver di Bruno Delgado Ramo. Il film, attraverso la continua sovrapposizione di immagini di navi in movimento e del processo di lavorazione di un film (produzione e post), vuole mostrare l’importanza del lavoro manuale nel piccolo e nel grande, concedendo spazio ad una meta-riflessione sul cosa voglia dire usare oggi la pellicola. Purtroppo però sembra impossibile trovare un qualche appiglio per difendere quest’opera che manca di appeal. L’assenza di suono ingiustificata (come se non facesse parte della catena lavorativa) e le immagini in 16mm provano a regalare un godimento intellettuale che pecca però di una invalicabile superbia. Lasciare scritto su un depliant “l’importanza di continuare ad usare le mani” forse avrebbe avuto lo stesso effetto, ma almeno non ci avrebbe ammorbati con 18 minuti di nulla.
Torniamo ora alla qualità grazie a Patxi Burillo Nuin ed il suo Argileak. Spicchi di luce nella foresta, suggestioni sussurrate da una voce femminile, l’evocazione dell’esperienza spettatoriale grazie ad immagini mozzafiato. La messa a confronto tra l’esperienza sacra del pellegrinaggio sacro, con l’attesa dell’apparizione miracolosa della Santa Vergine Maria messa a confronto con l’esperienza sacra della sala cinematografica. La visione dei volti illuminati da uno schermo situato in mezzo ad una foresta anticipata da un cammino di torce nel buio in mezzo agli alberi genera in noi forti emozioni contrastanti. Le inquadrature su volti di bambini, adulti e anziani ci svelano sfumature di micro-espressività nascoste dall’occhio meno attento. Lo stupore e l’attesa riempiono lo schermo grazie alla capacità di farsi spettacolo per noi simili a loro. A tratti è l’ansia della timidezza recondita nello spirito umano a sovrastare il tutto: anche noi possiamo essere visti, anche noi potremmo diventare protagonisti tutto ad un tratto. Crollano le sicurezze concesse della sala buia, ci mettiamo a nudo, ci spogliamo davanti alla potenza del mezzo. Quadri rinascimentali rinascono grazie alle facce estasiate e noi che siamo lì in funzione di voyeur non ci sentiamo all’altezza di cotanta bellezza, eppure il regista in qualche modo ce lo ricorda che quelli siamo noi, che anche noi abbiamo quella bellezza intrinseca allo spirito di curiosità.
Si conclude poi la rassegna del giorno con un film spiazzante, uno shock che sembra decontestualizzato dalle visioni precedenti. Parliamo di Sensitivity in Low Light Condition del danese Stefan Kruse Jørgensen. Dite addio al continuo reiterarsi della riflessione sul mezzo tipico di questo genere di sperimentalizzazione e accogliete a braccia aperte l’aleatorio, il viscerale sentimento recondito nel subconscio. Un unico piano sequenza con la macchina ferma rende soggetto un falchetto nell’atto di nutrirsi sul ramo di un albero. L’orario è perfetto, i minuti serali in cui la luce scompare. In maniera lenta, e sempre visibile, tutto quanto si fa più scuro, la pioggia prende il sopravvento e le immagini diventano sempre più astratte, estranianti. Un dipinto espressionista dalle pennellate decise, freddi colori pastello nel quale il blu dei pixel appaiono con un’artisticità che ricorda La notte stellata di Vincent Van Gogh.
Ma tutto questo, che già basterebbe a farci apprezzare la natura della spontaneità, è condito da un’altra fondamentale spezia, il vissuto sincero. La colonna sonora che ci accompagna in questa seduta terapeutica è una conversazione registrata tra due fratelli che, davanti ad un falò, prima di andare a dormire, generano un flusso di coscienza carismatico e accattivante. Si parla di sanità mentale, di interpretazione di sogni e di incubi vari ma si passa anche allo small talking sull’incredulità dell’appartenenza ad una nazione quando ci sono le partite del mondiale di calcio. E tornano in mente le parole di un pezzo di Paolo Conte «mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia e Francia», mentre una lacrima, non si sa come e non si sa perché, ci riga il volto e un sorriso ce lo contorce piacevolmente. Una parentesi inaspettata di gioie e dolori, senza il bisogno di un appiglio allo scoglio della narrativa, senza un aiuto di montaggi studiati. Semplicemente, la natura.