Honeyland, l’equilibrio precario tra natura e uomo

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“Può il mondo delle api insegnarci ad essere altruisti?”

È una domanda che la biologa norvegese Gro Amdam si è posta al principio dei suoi studi sull’atteggiamento delle api all’interno degli alveari. E se c’è un film in grado di dare una risposta alla pressante domanda, questo è sicuramente Honeyland (trailer): docu-film di matrice etnografica e di grande respiro cinematografico.

Dopo tre anni di produzione, Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov, delineano in novanta minuti di film un importante passaggio nella vita dell’ultima cacciatrice di api europea, Hatidze Muratova, incapsulando l’energia vitale e la forza fisica di una donna a cui sembra essere affidato il destino del nostro intero pianeta.

È il villaggio rurale di Bekirlijia in Macedonia, a fare da sfondo alle pratiche ancestrali di apicoltura di Hatidze, incorniciata in una superficie visiva e atmosferica legata al passato arcaico e mitico; terre ricollegabili all’antica Grecia e all’impero romano sorretto da imperatori e filosofi che garantivano un certo, ma precario, equilibrio. Ed è proprio Marco Aurelio ad affermare che “Ciò che non giova all’alveare, non giova neppure all’ape”, aforisma perfettamente ricollegabile al nucleo tematico del film in questione.

In Honeyland è l’equilibrio tra uomo e natura a porsi come fragile base e fondamenta per la vita, sia di Hatidze che per quella di tutti noi. Lo si intuisce sin da subito, quando con religiosa maestria e con sacri movimenti la donna intona una canzone che recita “metà per te, metà per me” riferendosi al miele prodotto dalle api.

Sarà l’interruzione di questo equilibrio a causa di una famiglia nomade di apicoltori, a mettere alle strette la vita della protagonista, troppo impegnata a vendere il suo miele e badare alla madre morente, da tralasciare il rischio di una convivenza. Infatti, dopo averli accolti e resi consapevoli del precario equilibrio che vige tra l’ape e il suo cacciatore, il capofamiglia nomade decide comunque di rubare alle api la loro porzione di linfa vitale per scopi puramente economici, facendo sprofondare nel caos la vita di Hatidze.

I due registi intuiscono bene il forte parallelismo tra il sistema di vita sociale all’interno dell’alveare e quello più in superficie della protagonista (e nostro) facendo del film una metafora vibrante, fotografata divinamente e fortemente universale da commuovere ad ogni nuova immagine. Senz’altro l’abilità di saper narrare con intrecci e colpi di scena (selezionati tra più di quattrocento ore di girato) ha reso l’impianto narrativo suggestivo e di maggiore fruibilità; un documentario che è anche un bellissimo poema fluviale, lirico e profondo, capace di penetrare anche nelle situazioni più intime senza destare sospetto di artificio dietro quello che si osserva.

Ricollegandosi alla domanda iniziale, Amdam afferma che le api lavoratrici (produttrici di miele) sono fortemente altruiste nel loro abbandonare il proprio figlio per lavorare a fianco dell’ape regina; ed è inevitabile non vedere il riflesso di questo altruismo in Hatidze che si fa bella per eventuali uomini, o domanda alla madre se si sia mai fatto avanti qualche pretendente oppure comunica il suo desiderio di avere un bambino.

La risposta alla domanda è quindi fortemente esplicita in questo documentario, per nulla ermetico o chiuso in raffinate macchinazioni registiche. Delicatissimo per quanto crudo, Honeyland è urgente ora più che mai. Stiamo rapidamente distruggendo l’equilibrio vitale per la convivenza in questo mondo e Hatidze è un esempio di come poterlo risanare.

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