Nino Manfredi e i suoi 100 anni: un commediante della modernità

I 100 anni di Nino Manfredi

Tutti i mattatori del cinema italiano hanno, in un modo o nell’altro, rappresentato la modernità, intesa come la visione di una società ormai immersa nella libidine godereccia e consumistica del Boom, che, dopo essersi finalmente dimenticata le piaghe dell’ultimo conflitto mondiale, si è assunta a pieno titolo l’esigenza di non abbandonare mai l’epopea della cuccagna. E ognuno di quei mattatori, sotto la direzione dei più svariati registi, ha incarnato immedicabilmente un tratto specifico dell’italiano maturo, adulto. Mastroianni resta l’emblema del latin lover vissuto e disincantato, Tognazzi si divide tra senso del grottesco e scatenamento degli istinti, Gassman esprime, volente o nolente, la virulenza della teatralità, Sordi leva la pelle ai suoi personaggi, esplodendo in una cattiveria suggerita, all’insegna della laidezza.

E Nino Manfredi? Quali sono state le sue peculiarità da mattatore? Per quanto possa sembrare il contrario, i registri espressivi dell’attore non sono mai stati costanti, monocordi, continuamente sclerotizzati sui canoni base della fin troppo discussa e studiata Commedia all’italiana. Infatti, se si va a guardare attentamente, Manfredi ha spesso concesso piccoli quadretti di persone comuni, raccontati però con bizzarre alternanze sul tema. Il più divertente e innovativo di tutti quale può essere? Dall’emigrante di Pane e cioccolata, al finto monco di Cafè express, ma anche al violentatore campagnolo di Vedo nudo, o alla carrellata trasformistica di Questa volta parliamo d’uomini, le variazioni sono tante. E non mancano i personaggi emblematici, come l’Impiegato di Puccini, o l’ex partigiano di C’eravamo tanto amati, fino al malinconico Geppetto comenciniano, che, proprio perché privi del parossismo di alcuni dei suoi film precedenti, possono considerarsi tutt’altro che legati a certi criteri recitativi della tradizione italiana.

A differenza di altri attori della sua generazione, Manfredi proviene da una scuola di recitazione, per cui le attenzioni che rivolge alle battute e alle risposte del partner sono sempre altissime. «Lo chiamavo l’orologiaio», dirà Dino Risi «era pignolissimo nel suo lavoro, un cesellatore, per questo riusciva a dare risultati straordinari»[1]. Con Totò, durante la loro unica esperienza insieme in Operazione San Gennaro, non riusciva a tenere testa alle continue mini-improvvisazioni dell’attore napoletano. La pignoleria di Nino affondava le sue radici in una sensibilità che lo spingeva a studiare attentamente il mondo legato al personaggio che recita. «Quando ha fatto Geppetto», ha raccontato la moglie Erminia «per prepararsi alla parte, pur non avendone l’età, andava di fronte alla nostra casa, a Roma, nel Giardino degli Aranci, a vedere come giocavano i bambini. Il tutto per delineare un Geppetto, ancora attivo, desideroso di giocare»[2].

Le classi sociali a cui Manfredi ha fatto riferimento nella sua abbondante filmografia sono tante, e a differenza di Sordi probabilmente non ha mai avuto l’ambizione di incarnare l’italiano, in tutte le sue forme e deformità. Nel raccontare l’Italia ci è comunque riuscito, attraverso il suo eclettico e mai ingombrante istrionismo. E poi appare più “buono” di altri dissacratori della commedia, da Tognazzi a Benigni. Quella tenerezza, quel calore umano che lo stesso attore riconosceva su sé stesso, proveniva per sua stessa ammissione «da quella carica di umanità che uno ha dentro, ma che non viene fuori se non la coltivi, se non la nutri, e che diventa man mano capacità di comunicare, di dire delle cose attraverso determinati veicoli. Per l’attore sono la mimica, la recitazione, l’uso del corpo, della voce, del volto»[3].

D’altra parte non si può continuare a parlare di Manfredi, tralasciando le professioni trasversali a cui si è dedicato con altrettanta duttilità: musica, televisione e regia. Dotato di un’intonazione canora decisamente superiore ai colleghi, l’attore ciociaro si è fatto amare anche attraverso alcune incisioni discografiche. Non solo attraverso Tanto pe’ cantà, cover di grandissimo successo di un vecchio brano di Petrolini del ’32, ma anche grazie a Che bello sta con te, M’è nata all’improvviso ‘na canzone, Me pizzica me mozzica, sono solo alcune delle incisioni che lo hanno accostato alla tradizione della musica romanesca, degli stornelli, del canto popolare trasteverino. Con la televisione ha creato una nuova fenomenologia dello spot pubblicitario, mentre con la regia, pur non fornendo molte prove (l’episodio di un film collettivo e due lungometraggi), ha dato comunque il meglio di sé. L’avventura di un soldato, (tratto da un racconto di Italo Calvino), episodio del film L’amore difficile, è un piccolo gioiello di pantomima, dove il protagonista, non recitando una parola di dialogo, si inserisce all’interno di un modello di pathos quasi chapliniano. Gli altri film da lui diretti restano tra le sue opere più apprezzate, ovvero Per grazia ricevuta e Nudo di donna.

Nino Manfredi in C'eravamo tanto amati

In una fase storica in cui i mattatori della prima generazione apparivano ormai in declino, Manfredi ha rimodulato ulteriormente le sue possibilità attoriali, con prove nettamente drammatiche e per nulla ironiche, come ne Il giocattolo di Giuliano Montaldo, film che in un certo senso rischia di ricordare la sterzata “tragica” del Sordi di Un borghese piccolo piccolo, avvenuta due anni prima. Chiara la cura per quel ruolo da parte di Nino, già riscontrabile nelle parole del regista all’epoca delle riprese. «E’ un attore che vuole vivere dall’interno, come sceneggiatore, la maturazione dei suoi personaggi», confessava Montaldo, «tanto che proprio per allineare gli altri attori a lui abbiamo fatto parecchi giorni di prove a tavolino prima di cominciare a girare»[4].

Come immaginabile, negli anni successivi Manfredi sarebbe entrato senza se e senza ma, nell’Olimpo delle celeberrime e rispettatissime vecchie glorie del cinema nostrano, pur rimanendo nei ranghi della commedia commerciale e popolare. Con i colleghi mattatori avrebbe sempre mantenuto rapporti diplomatici di buon livello, anche se non sono del tutto sconosciuti i suoi lievi e antichi dissapori con Sordi (i due non si incontreranno neanche di sfuggita nel ’90, sul set di In nome del popolo sovrano, in cui recitavano entrambi). E come nel caso del collega trasteverino, gli anni della maturità non hanno certo segnato una rinascita per il mattatore ciociaro, come sarebbe potuto accadere per Totò e Troisi, entrambi scomparsi dopo due salti di qualità avvenuti in extremis prima della loro morte. In fede a questo discorso, non è scontato che un ruolo “anomalo” all’interno di una filmografia che galleggia su altri standard, riesca a sancire negli anni a venire una nuova fase per un attore.

Tornando al discorso dell’ecletticismo, Manfredi si è comunque immerso in molteplici possibilità di travestimento. Da Brutti, sporchi e cattivi a Secondo Ponzio Pilato, Nino non ha recitato soltanto in personaggi piccolo-borghesi, classici e accomodanti. Ha affrontato il confronto tra generazioni (Il cavalluccio svedese), la cronaca nera rivista con gli occhi del popolino (Girolimoni, il mostro di Roma) e le tensioni sociali (Contestazione generale). Si è spesso trasformato, pur restando all’interno di ruoli a lui congeniali, evitando di lasciarsi andare. «Ci sono due specie di attori» ribadiva, «quello che potremo chiamare ‘avvocato’, pronto a sostenere qualsiasi causa, e quello ‘sincero’. Io, che se non sono convinto di una battuta divento un cane, appartengo alla seconda categoria. Devo dunque fare l’attore solo per ciò che vale la pena di esprimere»[5].

Un dinamismo che lo tiene comunque lontano dai registri del clown, del buffone, del saltimbanco di varietà, o dell’attore alla moda, bisognoso di cogliere la cronaca, il momento, costringendosi a un travestimento continuo. «Nino è stato davvero l’uomo dai mille volti», conferma Gianni Canova, «ma senza il fregolismo di tanti attori presi dal bisogno ossessivo-compulsivo di esibire la propria abilità nel cambiare incessantemente identità. Nino si trucca. Nino si offre. Fa del suo corpo un campo da gioco: un laboratorio sperimentale della fisiognomica, un’olimpiade della mimica»[6].

Con la sua lieve e danzante simpatia, Manfredi ha saputo mettere a nudo certe congetture dell’italiano qualunque, del borgataro, dell’uomo medio, ma anche del tipo inaspettato, dotato di un’apparente innocenza che si rivela poi ingannevole e sorprendentemente scaltra anche se, va detto, nella stragrande maggioranza dei film in cui è protagonista prevalga la linea contraria, vale a dire quella dell’uomo qualunque, vessato dalle intemperie della quotidianità. Una modestia che gli ha consentito di trovare il favore delle masse popolari, al pari di Totò, Sordi, Peppino De Filippo, che attraverso «il loro nichilismo anarcoide e dodecafonico», stando alle parole di Valerio Caprara, hanno conquistato intere generazioni di pubblico.

Nino Manfredi in Brutti sporchi e cattivi

E all’estero? Vero che, come quasi tutta la grande comicità italiana, il cinema di Manfredi al di fuori dei confini nazionali non abbia fatto breccia che a pezzi e bocconcini. L’esitazione di cimentarsi in progetti internazionali, non lo ha certo aiutato. Come ha raccontato il figlio Luca «ha avuto molte offerte importanti dall’estero, però si è sempre rifiutato di utilizzare una lingua che non era la sua. Diceva infatti, ‘io non posso recitare imparando a memoria un testo, senza capire bene quello che dico e faccio sul set’. Quando Billy Wilder gli propose di interpretare un film al fianco di Jack Lemmon, Nino pertanto gli rispose, ‘se Lei fa recitare Lemmon in italiano, io allora parlerei solo in inglese: così abbiamo entrambi lo stesso handicap’»[7]. Eppure nessuno ci toglie dalla testa che la carica emotiva dei suoi personaggi (oltre a quelli citati, prendiamo in carico il podestà de Gli anni ruggenti, l’architetto dispotico de Il padre di famiglia, o l’ex partigiano di Italian Secret Service, disposto a trasformarsi in spia dei servizi segreti) gli avrebbe consentito di lavorare a suo agio anche all’interno di un’industria cinematografica non italiana.

Resta ancora un punto da chiarire, un altro dilemma. Nei personaggi di Nino Manfredi vi era anche un po’ di qualunquismo, di conservatorismo? Facile osservare come buona parte dei suoi film riflettessero certe angosce del popolo comune, frustrato dalla mancanza di prospettive, assuefatto alla rassicuranza ripetitiva del quotidiano e impaurito che quest’ultima possa, con qualche drammatico evento, finire. Eppure non si trattava di conservatorismo, di raccontare l’Italia attraverso la lente pretenziosa del realismo nazional-popolare. Molti altri suoi film superavano questo limite, non si fermavano a questo. Altre sue pellicole sono state scorci, panoramiche, radiografie di una visione tutta italiana della storia, della società, ma anche di un mondo metropolitano pieno di sfumature affascinanti (come Nudo di donna). Manfredi è stato anche un eroe nazional-popolare, sì. Ma non solo questo.

Se Tognazzi da un lato è la perfetta nemesi della vigliaccheria e dell’arrivismo sordiano, Manfredi è forse il punto di incrocio tra entrambi. Non possiede forse la disinvoltura beffarda del collega cremonese, ma neanche la viscida e volontaria codardia del mattatore romano, per quanto nei suoi personaggi non manchi la spavalderia, né tantomeno la vigliaccheria. Forse nessuna delle due prevale, e proprio per questo riesce ad avere la meglio su spettatori di fazioni opposte. Sia di quelli come me che prediliggono l’happy end e la costante riscossa morale del protagonista, che di quelli sostenitori dell’unhappy end, dei perdenti, degli eterni infelici che sul più bello si vedono soffiare la conquista da un avversario.

Manfredi non è mai stato estremo nelle sue caratterizzazioni, proprio per questo ha avuto la meglio sulla simpatia degli spettatori. Il giocattolo, non a caso, esce nel mezzo di due pellicole di stampo drammatico dei moschettieri sopracitati; Un borghese piccolo piccolo e La tragedia di un uomo ridicolo. Nel primo caso l’opera con Sordi protagonista è inquinata da un’enfasi retorica e populista, tipica dell’universo dell’attore romano. Nel secondo alcune preoccupazioni ideologiche hanno forse tolto qualcosa all’opus bertolucciano, interpretato magistralmente da Tognazzi. Se entrambi i film fossero stati girati con Manfredi, sarebbero venuti due capolavori assoluti, proprio perché “mediati” dalla sua compostezza, meno caratterizzante dei colleghi.

La sincerità che lo caratterizzava, tendeva ad accompagnarlo anche nella vita privata, oltre che nelle interviste. Non ha mancato di polemizzare su alcuni errori commessi dalla classe politica in ambito di spettacolo. «Ho visto vecchi attori mai stati bravi che, non riuscendo più a stare sulla breccia, si facevano raccomandare da alcuni politici per insegnare recitazione nelle accademie. Ma che avrebbe insegnato se non lo sapeva fare manco lui?», disse in un’occasione, proseguendo «noi provenivamo da una scuola vera. Finiti i maestri, sono finiti anche gli allievi»[8]. Nonostante la sua sensibilità e rigore, pensava che alle volte gli intellettuali potessero essere pericolosi.

Certo, ha pagato a caro prezzo il suo rifiuto per il cinema straniero. Sarebbe stato esaltante vederlo diretto da maestri come Godard, Wenders, Malick, Resnais, ma anche da italiani come Antonioni e Fellini. Tra i rari attori di grande taglio popolare apprezzati dalla giovane critica a non essere stati diretti dai cosidetti “autori”, Manfredi ha consegnato al capitolo terminale della sua lunga attività, una produzione televisiva di qualità non certo eccelsa, ma della quale apprezziamo certamente la buona volontà e l’abnegazione di un professionista che, al pari di tanti altri, nonostante gli impegni e l’età, si concedeva a tutti con estrema dedizione.

Oggi potremmo azzardarci a dire che Manfredi era la schiettezza personificata, oltre che una figura priva di “vanità e affanni” (Bergman docet). Non amava figurare come sex-symbol, nonostante la sua bella presenza, e come dirà Lino Banfi all’indomani della sua scomparsa, «non ci sarà più non solo la bravura, ma sparirà la bellezza. Loro erano tutti belli, noi siamo un po’ tutti bruttarelli»[9]. E le nuove generazioni si sono accorte di questa sincerità, del carattere così cristallino di un attento professionista, di un commediante della modernità.


[1] “Risi: era un ‘orologiaio’, pignolo come pochi altri” la Repubblica, 4 giugno 2004

[2] Intervista di Domenico Palattella a Erminia Ferrari Manfredi, in Ciro Borrelli, Gianmarco Cilento, Domenico Palattella “Il ventennio d’oro del cinema italiano”, Graus, Napoli, 2021

[3] Felice Laudadio “Semina e raccolto di un tenace attore contadino” l’Unità, 18 dicembre 1978

[4] Ernesto Baldo “Montaldo dirige Manfredi ma pensa a Marco Polo” La Stampa, 29 dicembre 1978

[5] Lamberto Antonelli “Si prepara a volare il Merlo di Manfredi” Corriere della Sera, 16 marzo 1971

[6] Alessandro Ticozzi “Nino Manfredi, l’eroe positivo della Commedia all’Italiana”, Sensoinverso, Ravenna, 2019

[7] Intervista di Alessandro Ticozzi a Luca Manfredi, in Alessandro Ticozzi “Nino Manfredi, l’eroe positivo della Commedia all’Italiana”, cit.

[8] https://www.youtube.com/watch?v=7OOcsCYQcCQ&t=2122s

[9] “Manfredi, applausi e ricordi per l’ultimo saluto all’attore”, la Repubblica, 5 giugno 2004

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