Niente da perdere, la recensione: la disperazione nel naufragio

Niente da perdere, la recensione del film di Deloget

Sylvie (Virginie Efira) gestisce un locale notturno a Brest, città portuale sulla costa nord-ovest della Francia. Dietro il bancone, sua postazione fissa, si destreggia come un capitano che, di fronte ad un imprevisto mare in tempesta, cerca di tenere i nervi saldi e far rimanere la nave a galla. Al lato opposto del bancone, come un equipaggio disperato, si accalca una moltitudine di clienti assetati e insistenti, quasi imploranti: tendono le braccia verso la barlady, nell’attesa insostenibile di afferrare un drink. Ma Sylvie è un capitano severo, rimprovera la folla e cerca di domarla. Impetuosi getti di alcol precipitano nei bicchieri e, in parte, strabordano. Mesi dopo sarà il locale stesso ad essere inondato, non di festaioli over 40, ma di acqua vera e propria, come quella che bagna il porto di Brest. Dal pavimento se ne innalzeranno decine di centimetri, che Sylvie e i suoi colleghi rimuoveranno secchiata dopo secchiata. Forse si è rotta una tubatura, ma poco importa. Presto ci accorgeremo che la stessa vita di Sylvie è un Titanic, e il suo naufragio, inevitabile.  

Delphine Deloget, regista e sceneggiatrice di Niente da perdere (trailer), rappresenta efficacemente il tumulto interiore della protagonista, nonché il caos in cui progressivamente precipita la sua realtà, non soltanto grazie al ritmo altamente dinamico del racconto, ma anche sul piano visivo: il volto di Efira è in prevalenza ripreso con una movimentata macchina a mano. D’altra parte, l’attrice di Sibyl e di Benedetta, è generosa nel restituire un’interpretazione dall’andamento sinusoidale, che alterna esplosioni di energia, perlopiù intese in senso distruttivo, a dolci espressioni di premura materna.

Il personaggio di Sylvie è incostante e, anche per questo, divisivo. Una sera, mentre lei è a lavoro e il figlio maggiore, Jean-Jacques (Félix Lefebvre), deve ancora rientrare dalle prove della banda in cui suona la tromba, il piccolo Sofiane (Alexis Tonetti) è solo in casa. Il fallimentare tentativo di preparare delle patatine fritte gli provoca una grave ustione. La vicenda sembra esaurirsi con lo shock e lo spavento della madre di fronte all’incidente del figlio, ma più drastiche conseguenze non tardano ad arrivare. Qualcuno ha segnalato l’accaduto all’assistenza all’infanzia, che, una mattina, piomba in casa di Sylvie e, non trovandola, preleva Sofiane.

Niente da perdere, la recensione del film di Deloget

Il confronto con la protagonista genera un conflitto interiore nello spettatore: questi, infatti, se da un lato empatizza con la donna, in quanto genitore a cui è stato strappato via un figlio, dall’altro non può non vedere i rischi che lo stile di vita della madre comporta nella crescita dei due ragazzi. Il pubblico stesso si sente troppo moralista e giudicante nei confronti di Sylvie, che lavora di notte come tanti altri genitori fanno; magari però, tra questi, molti svolgono mestieri considerati dalla norma sociale più consoni ad un adulto. Tuttavia, è evidente che il primogenito JJ – come spesso lo chiama Sylvie – celi dentro di sé un grosso disagio.

Il direttore della banda, prima ancora che Sofiane venga trasferito nella casa-famiglia, fa notare a Jean-Jacques come, soltanto liberandosi della sua tensione, riuscirà a suonare meglio. In uno dei primi incontri con l’assistente sociale, inoltre, è Sylvie stessa ad ammettere che, da piccolo, JJ soffriva di un disturbo alimentare. Poco più avanti nel film se ne ripresenteranno i sintomi nel ragazzo. Si deduce che Jean-Jacques somatizza lo stress procuratogli dalla pressione che la madre esercita su di lui, la cui entità non è però mai del tutto definita. Nella lotta per la riconquista della custodia di Sofiane, Sylvie affronta alcune battaglie con ammirevole pazienza, altre con preoccupante aggressività. Sono l’allontanamento da suo figlio e il travagliato processo burocratico a renderla instabile, oppure viene soltanto rivelata la sua vera natura genitoriale?

La visione di Niente da perdere è difficile da sostenere perché trasmette una paura ben precisa: la storia di Sylvie, Sofiane e JJ avrebbe potuto essere la nostra o quella di qualcuno a noi molto vicino. In Francia i minori allontanati dal nucleo familiare di origine sono centinaia di migliaia, in Italia qualche decina di migliaia: oltralpe in special modo, da dove proviene, Niente da perdere è più vicino alla realtà di quanto lo sia alla finzione, ed è in questo che la sua visione, seppur cruda, si rende necessaria. Deloget conferisce al racconto la giusta dose di realismo. Ciascun personaggio è intento a confrontarsi con questioni che, anche se intuibili, rimangono semicelate: è proprio la sua parziale inaccessibilità a renderlo tangibile. L’unico momento in cui la narrazione tende di più al favolistico è il finale, in cui una drastica decisione è presa da Sylvie bypassando qualsiasi valutazione di rischio. Il film però non riduce le conseguenze della sua scelta, piuttosto si interrompe prima che queste possano attuarsi. Forse vuole fermare il tempo di Sylvie, Sofiane e JJ a pochi centimetri dal precipizio. Del resto, non hanno più nulla da perdere.

Dal 16 maggio al cinema.

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