Mouchette: Bresson e lo stile trascendentale

Nel 1972 viene pubblicato Il trascendente nel cinema di Paul Schrader. Lo stile trascendentale si configura come sintesi di due premesse: la presenza di ierofanie e di forme di rappresentazione artistica che sono comuni a culture differenti. Esso rifiuta tutte le modalità interpretative della realtà convenzionali, dal realismo allo psicologismo, che funzionano come “paraventi”, secondo la definizione di Robert Bresson. Si tratta di quegli elementi come trama, musica, dialoghi, montaggio che consentono allo spettatore di “comprendere” l’evento che viene rappresentato e servono a coinvolgerlo emotivamente.

L’intento di Bresson è infatti quello di costringere lo spettatore a vedere abbandonati modelli culturalmente determinati, limitandone lo sguardo per mezzo della ripresa di dettagli e minimi gesti quotidiani che solitamente passano inosservati, a loro volta  parte di una totalità che non si darà mai alla vista nel suo insieme. La forma è l’elemento attivo e universale, al contrario del contenuto che è determinato dalla cultura che lo produce. Un processo di sottrazione che conduce a una “celebrazione del banale” e alla creazione di una “superficie di realtà”, a cui si accompagnano ambientazioni reali, attori non professionisti e suono in presa diretta spesso portato in primo piano. Insomma lo spettatore non deve “distrarsi”, bensi deve prepararsi per affrontare l’ignoto e confrontarsi con il Completamente Altro.

Il 28 marzo 1967 esce Mouchette, primo esempio di coproduzione tra cinema e televisione in Francia, tratto da Nuova storia di Mouchette di Georges Bernanos (e dello scrittore francese Bresson aveva già adattato Il diario di un curato di campagna). Il lungometraggio venne realizzato nemmeno un anno dopo Au Hasard Balthazar, a sottolineare la vicinanza dei due film: Mouchette riporta alla mente Marie; la struttura narrativa è simile; in entrambi i film è presente Jean-Claude Guilbert, caso unico nella filmografia del regista francese, nella parte di Arsene, un alcolizzato e emarginato.

Mouchette (Nadine Nortier) vive in un villaggio rurale povero e dominato dalla violenza e dalla brutalità. Deve occuparsi del fratello neonato perché la madre malata è costretta a restare nel letto, mentre il padre è un alcolizzato che si dedica al contrabbando di alcool. La prima sequenza già fornisce tutte le indicazioni sul destino a cui andrà incontro la protagonista, confermando anche come nel cinema di Bresson il finale può essere già definito dall’inizio (si pensi a Un condannato a morte è fuggito, dove l’esito della fuga è già contenuto nel titolo). Vediamo la madre di Mouchette vestita in nero dire: “Che ne sarebbe di loro senza di me? Posso sentirlo nel mio respiro. È come una pietra dentro.” Dopo lo scorrere dei titoli di coda, sulle note del Magnificat di Monteverdi, il guardiacaccia Mathieu (Jean Vimenet) osserva il bracconiere Arsene mentre tenta di catturare un uccello e più volte la macchina da prese si sofferma sul volatile mentre cerca di liberarsi dalla trappola. Il destino della protagonista sembra essere già segnato eppure non è ancora comparsa sulla scena.

Mouchette è ostracizzata e oggetto di violenze per il suo essere povera, miserabile, disadattata. Basti considerare il suo ingresso nella classe della scuola che frequenta. Il rumore dei suoi passi, portati in primo piano, sottolineano la sua alterità rispetto alle compagne. Bresson vuole focalizzarsi sulla solidarietà nel male. Mouchette è vittimizzata anche perché la società ha bisogno di una vittima per sfogare le proprie frustrazioni, e le sue reazioni assumono l’aspetto di dispetti infantili, come il lanciare fango alle compagne di classe. Da un lato dunque è una bambina: si pensi alla sequenza in cui una donna, in un raro gesto di generosità, le dà un gettone per l’autoscontro e qui si scambia più volte sorrisi con un ragazzo fino a quando non viene riportata alla quotidianità dal padre, con uno schiaffo. Dall’altro è costretta a fare l’adulta: deve accudire la madre morente e il fratello più piccolo. A conti fatti non è né l’una nè l’altra. È un personaggio troppo complesso per poter essere giudicato e inserito all’interno di categorie psicologiche definite. A tal proposito tornano utili le dichiarazioni di Bresson sulla recitazione: “Va bene per il teatro, che è un’arte bastarda”. Attraverso la recitazione l’attore trasforma le sue complessità personali in caratteristiche comprensibili dandoci una proiezione falsa dell’essere umano. “Noi siamo complessi. E la proiezione dell’attore non lo è”. Da qui l’obbligo a recitare in maniera automatica, “senza essere preoccupati di se stessi, senza autocontrollo”. Ancora in relazione a Mouchette, il regista francese ha affermato: “ Prenderò la ragazza più goffa che esista e cercherò di trarre da lei tutto ciò che non sospetta io stia attingendo da lei”.

Come detto, nel cinema di Bresson lo spettatore sarà costretto a confrontarsi con l’ignoto e questo confronto emerge in particolare nella sequenza dello stupro. Mentre sta per tornare da scuola Mouchette, sorpresa da un temporale, decide di fermarsi in un bosco. Viene soccorsa dal bracconiere Arsene, che poco prima ha avuto uno scontro con il guardiacaccia Mathieu. Dopo essere stati in una capanna, Arsene, alterato dall’alcool, la conduce nella sua casa dove le racconta di aver ucciso il guardiacaccia. La giovane si dice disposta a testimoniare a favore del bracconiere. Questa scelta trasforma Mouchette in complice, rendendo ancor più sfumata la distinzione (già labile come visto in precedenza) tra infanzia ed età adulta e testimonia anche come per la prima volta senta un senso di comunanza con qualcuno.

Arsene ha una crisi epilettica e per placarla Mouchette canta una canzone già intonata poco prima a scuola. In questa scena la protagonista inizialmente si rifiuta di cantare venendo poi obbligata dalla maestra, non riuscendo però a prendere una sesta minore (un intervallo “difficile”). Al contrario questa volta, rimasta sola con Arsene, riesce a cantarla con la giusta intonazione prendendo anche la sesta minore. Il testo si riferisce alla spedizione di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo e ha al proprio centro la questione della speranza. La prima frase è infatti: “La speranza. La speranza è morta”. In questo modo Bresson stabilisce un parallelo tra la canzone e le condizioni di vita di Mouchette, spingendoci a chiederci se esiste ancora una speranza per lei.

Dopo essersi ripreso, l’uomo sembra non ricordare quello che ha detto poco prima alla ragazza. Mouchette cerca di uscire, ma Arsene glielo impedisce e dopo essere caduta vicino al caminetto il bracconiere si avventa su di lei. La sequenza si conclude con un’inquadratura delle mani di Mouchette che abbracciano la schiena di Arsene. Questo gesto ci dice che la protagonista è incapace di giudicare tanto se stessa quanto gli altri, al punto che successivamente dirà di essere l’amante di Arsene invece di aver subito una violenza. Ma dal punto di vista delle scelte di messa in scena la sequenza apre anche ad un altrove. Prima di tutto Arsene dice a Mouchette che fuori c’è un ciclone, piuttosto che un semplice temporale. Le inquadrature si limitano al campo medio e al primo piano non fornendoci mai una visione d’insieme dei luoghi in cui si trovano i due personaggi e il suono è ridotto al rumore del vento e della pioggia che infuria all’esterno e allo scoppiettare del fuoco nel caminetto. L’effetto è quello di attribuire a tutto l’episodio un carattere quasi onirico, lasciando lo spettatore in uno stato di profonda inquietudine. È qui che emerge quel senso dell’ignoto e del mistero, del confronto con un Completamente Altro indicibile a parole e che può essere suggerito solo attraverso le immagini.

Mouchette ritorna a casa, e da questo momento in poi si assisterà alla fine di quell’atmosfera onirica e del “lavoro dell’immaginazione” in direzione di un ritorno alla realtà (intesa prima di tutto come quotidianità) e di affermazione della “forza deterministica della morte”. La madre le dice che fuori non c’è mai stato un ciclone e mentre Mouchette prepara il latte per il fratellino, svelando la sua innocenza e bontà, muore nel proprio letto. Tenendo a mente la sequenza iniziale diventa ancor più chiaro a quale destino Mouchette andrà incontro.

Il giorno seguente segna l’inizio della personale via crucis della protagonista. Prima di uscire di casa si volta verso il padre e dice: “merda”. Ora, nel cinema di Bresson termini di questo tipo sono eventi più unici che rari, dunque se è stato inserito vuol dire che per il regista francese era necessario, facendo il paio anche con quello che Mouchette aveva detto precedentemente ad Arsene: “li odio tutti e non gliela darò vinta”. Quello che sembra tenere in vita Mouchette sono la rabbia e l’odio.

Siamo nella fase dello stile trascendentale che Bresson chiama “la scissione”. In relazione a Il diario di un curato di campagna Schrader scrive: “il protagonista di Bresson vive in un ambiente totalmente immanente, insensibile, materialistico, eppure piuttosto che adattarsi, obbedisce a qualcosa di totalmente estraneo ad esso”. Mouchette insomma deve decidere se adattarsi a quel mondo o mantenere la propria integrità.

Dopo una serie di incontri durante i quali scoprirà che Mathieu è ancora vivo e verrà accusata di essere una “puttanella” e di avere “il male negli occhi”, giunge in un campo dove vede dei bracconieri uccidere un coniglio (difficile che non venga alla mente il capolavoro di Renoir La regola del gioco). Il parallelismo tra gli animali uccisi e Mouchette è evidente. Tutti questi incontri sono momenti decisivi che portano la protagonista a comprendere che è giusto desiderare quello che desidera.

Infine Mouchette giunge presso uno stagno, luogo di quello che Schrader definisce “l’evento decisivo”, ovvero “un avvenimento incredibile all’interno di una struttura chiusa. Le rigide leggi della quotidianità saltano, e c’è un’esplosione di musica”. Il suicidio di Mouchette non è premeditato ma sembra di natura casuale e accidentale anche se, come dichiarato da Bresson, “deriva da un’attrattiva per il Cielo”. Mouchette si rotola giù per l’argine, poi si rialza e vede un uomo su un trattore. Fa un cenno ma viene ignorata. Il fallimento di quest’ultimo tentativo di essere riconosciuta e ascoltata coincide con lo svuotamento di quelle due emozioni che, come detto in precedenza, la tenevano in vita: odio e rabbia. Il rotolarsi giù per l’argine invece sembra rinviare al gioco e quindi all’infanzia. Mouchette si avvicina alla morte come se fosse un gioco e allo stesso tempo questo gioco ci ricorda tutto ciò che lei avrebbe potuto essere in potenza, il tipo di infanzia e di destino che avrebbe potuto avere se qualcuno l’avesse mai ascoltata. Il suo suicidio non può che essere connotato e accettato dallo spettatore come inevitabile. Dopo un secondo tentativo in cui viene fermata da un piccolo cespuglio, Mouchette cade nello stagno da cui non uscirà più.

L’evento decisivo è accompagnato da una trasformazione: “Ad un certo punto deve avvenire una trasformazione, altrimenti non è arte”. La musica serve proprio a trasformare ciò che si vede sullo schermo e a trasportare lo spettatore in una dimensione universale, ed ecco che subito dopo la caduta sentiamo nuovamente il Magnificat di Monteverdi. Infine la stasi, la scena inerte e ieratica che chiude il film e suggerisce l’unità delle cose: l’acqua dello stagno, ancora in leggero movimento.

L’ultimo aspetto che voglio prendere in considerazione e che viene analizzato da Schrader è quello della metafora della prigione legata alla dicotomia corpo/anima. Il corpo è la prigione dell’anima, e la libertà in questo caso può passare attraverso atti di auto-mortificazione, nel caso di Mouchette appunto il togliersi la vita. Proprio questo film diventa allora la perfetta trasposizione della tesi di Sant’Ambrogio secondo cui è possibile lasciarsi morire per liberarci dalla prigione del corpo e riconoscendo dunque che il suicidio non deve essere condannato, ma che piuttosto può essere considerato come azione positiva che ci porterà ad essere “prigionieri nel Signore”.

BIBLIOGRAFIA

– Paul Schrader, Il trascendente nel cinema, Donzelli Editore

– Lucy Stone MCneece, Bresson’s “Miracle of the Flesh”: Mouchette, The French Review, vol. 65, No. 2

– Renato Rizzello, La sesta minore di Mouchette, L’orecchio curioso

– Giorgio Tinazzi, Il cinema di Robert Bresson, Marsilio

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