Memorie di un assassino, 20 anni dopo: il capolavoro di Bong Joon-ho prima di Hollywood

Come molti ben sanno, la notte del 9 febbraio 2020 si è verificato un evento che mai era accaduto, prima di allora, nel mondo del cinema. Durante la 92ª edizione dei premi Oscar, infatti, il regista coreano Bong Joon-ho vinse la famosa statuetta al miglior film per Parasite, premio mai assegnato fino a quel momento ad un film “non in lingua inglese” (ossia, all’infuori di Hollywood). Se si considerano anche le vittorie per la miglior regia, il miglior film internazionale e la miglior sceneggiatura originale, oltre che la Palma d’Oro al Festival di Cannes, ci si rende conto di come per la prima volta, almeno dagli anni Duemila ad oggi, il cinema sud-coreano sia stato in grado di raggiungere un così vasto pubblico anche in Occidente. Probabilmente, nemmeno Old Boy di Park Chan-wook era riuscito, ormai quasi 20 anni fa, a raggiungere un così largo consenso di pubblico. Eppure, sempre in quel periodo, usciva in Corea il secondo film di Bong Joon-ho, quello che lo avrebbe affermato come uno dei più talentuosi registi della sua generazione: Memorie di un assassino.

Si è dovuto aspettare il grande successo ad Hollywood per riscoprire quello che è, probabilmente, il primo vero capolavoro del regista sud-coreano: sempre nel febbraio 2020, infatti, il film Memorie di un assassino è stato per la prima volta proposto nei cinema italiani, potendo cavalcare il successo appena ottenuto da Parasite. Difatti il film, quando uscì nel 2003, non ebbe distribuzione in Italia: nonostante fosse stato presentato al Festival di San Sebastián e al Torino Film Festival, la pellicola non vide mai la sala e uscì in Italia direttamente in home-video solo nel 2007. Una dinamica di distribuzione alquanto discutibile, o per lo meno che lascia un po’ desiderare, per un film che anche Quentin Tarantino ha definito «un capolavoro unico» e che sicuramente avrebbe meritato maggiori attenzioni sin dalla sua uscita.

Per questo suo secondo film, Bong decide di adattare per lo schermo il lavoro teatrale scritto da Kim Kwang-rim nel 1996, Come to See Me, ispirato ai delitti che tra il 1986 e il 1991 hanno insanguinato la cittadina rurale sudcoreana di Hwaseong. La storia ruota attorno alle indagini che vengono condotte dal dipartimento di polizia del luogo. Tre sono i personaggi che spiccano, più di tutti, nella narrazione: i due ispettori locali Park (Song Kang-ho, uno dei volti più noti del cinema coreano e celebre per aver collaborato con Bong in altri tre film, compreso Parasite) e Cho (Kim Roe-ha), dediti soprattutto a violenti e brutali metodi di interrogatorio con gli indiziati; a loro, si aggiunge il detective Seo (Kim Sang-kyung), giunto nella cittadina per dare un contributo alle indagini e propenso a metodi molto più loquaci e meno istintivi. Il film di Bong Joon-ho non segue solo la linea del poliziesco: nonostante le indagini siano centrali nella narrazione, il regista ci restituisce il ritratto di un intero paese travolto da una violenza inarrestabile, con la stampa e i giornalisti che cercano di estrapolare informazioni alla polizia; e con lo stesso corpo di polizia che non è neppure in grado di proteggere la scena del delitto o di fare un test del DNA.

Durante tutta quanta la durata del film, Bong non ha timore a mostrare il fallimento dei suoi protagonisti: tutti e tre, infatti, arriveranno a nutrire una vera e propria ossessione per le indagini sul killer che uccide, una dopo l’altra, le ragazze del luogo. Man mano che i cadaveri aumentano e che la pioggia continua a lavar via le impronte, si palesa l’impotenza dell’individuo davanti al male, mentre la scia di sangue tracciata dall’assassino non sembra arrestarsi. Nemmeno sulla conclusione del film Bong si lascia andare ad un accenno di speranza; l’idea di un finale spezzato, completamente aperto e sconclusionato, restituisce esattamente le condizioni delle indagini sul killer in questione: fino al 2003, infatti, anno di uscita del film, la polizia brancolò nel buio e il caso rimase aperto. Risulta chiaro, quindi, come Bong non fosse interessato ad uno svelamento della verità sull’omicida.

La linea del poliziesco definita dalle indagini è costretta ad interrompersi: nel film perché né i personaggi, né lo spettatore hanno la possibilità di giungere ad una conclusione su chi sia l’assassino; e nella realtà perché, effettivamente, il caso restava ancora aperto. L’idea del regista non era quella di raccontare la risoluzione delle indagini: al contrario, si pone l’impossibilità di decretare una verità certa e definita, in un paese segnato dalla dittatura del presidente autoritario Chun Doo-hwan.

La grandiosità di Memorie di un assassino sta nel fatto di raccontare una storia di cui lo spettatore conosce già la conclusione, sapendo che il responsabile degli omicidi non verrà mai identificato. Un discorso simile è stato poi ripreso qualche anno dopo da un altro film, ossia Zodiac di David Fincher. Anch’esso segue la stessa struttura, concentrandosi sulle indagini condotte dal dipartimento di polizia di San Francisco in riferimento al celebre Killer dello Zodiaco, attivo alla fine degli anni’60 nella California settentrionale e mai identificato. In entrambi i casi, è stata soprattutto la scrittura dei personaggi a rivelarsi fondamentale, per far sì che lo spettatore riuscisse ad appassionarsi a delle storie che, essenzialmente, non hanno alcuna conclusione. Difatti, non è la storia di per sé ad essere il perno centrale della narrazione, quanto piuttosto i personaggi: la loro caratterizzazione, i loro modi di fare e di agire, le reazioni che hanno dinanzi ad una violenza inarrestabile.

Sorprendentemente, nel 2019, le autorità coreane hanno identificato, anche grazie all’esame del DNA, il killer di Hwaseong, Lee Chun-jae: l’uomo era già in carcere, condannato all’ergastolo, per un successivo delitto del 1993, mai collegato agli altri. Lee ha quindi spontaneamente confessato i dieci omicidi e altri crimini efferati, commessi nel corso degli anni, chiudendo così uno dei casi criminali più controversi della storia coreana. Nonostante ciò, Memorie di un assassino resta un capolavoro moderno che, attraverso un fatto di cronaca nera, racconta il periodo buio di un paese e dei suoi abitanti.

Seppur lontane da noi per tempo e luogo, le vicende presentate nel film sono estremamente legate all’animo umano, a tutte le sue sfaccettature e ai cambiamenti radicali dei personaggi che, messi sotto pressione, si sentono responsabili delle vite umane cui non riescono a rendere giustizia. L’amarezza suscitata nello spettatore prima dei titoli di coda si presenta continuamente, visione dopo visione, anche dopo 20 anni dall’uscita del film: determinante è lo sguardo dell’ispettore Park, rivolto verso la macchina da presa, che osserva lo spettatore negli occhi (allo stesso modo di come guarda i vari indiziati durante tutta la durata del film), come se quest’ultimo possa essere l’assassino, gettando ancora una volta l’ombra del dubbio che verrà risolto definitivamente, nella realtà, solo sedici anni dopo.

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