#FKFF22: Immortal Woman, la recensione del film di Choi Jong-tae

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Una sala cinematografica vuota; sullo schermo viene proiettata ľimmagine di un teatro, anch’esso vuoto. Tantissime poltrone rosse in questi ambienti che, per vivere, devono essere riempite. Entriamo dentro allo schermo, nel teatro, catapultati in una dimensione altra, diversa, ma conosciuta (almeno in questo caso), con due linguaggi che dialogano e creano nuove intuizioni visive. Sul palcoscenico un negozio di cosmetica simulato, con le commesse Hee-kyeong e Seung-ah che devono mantenere un sorriso costante per evitare il licenziamento. Da qui parte un soffocante andirivieni di personaggi lamentosi che cercano vari pretesti per litigare e affermare il proprio “potere”.

Immortal Woman (trailer) è teatro filmato. Tutto avviene infatti nei limiti imposti dal palcoscenico. Le poltrone, intanto, rimangono vuote. Che siano le prove per un eventuale spettacolo? Oppure il pubblico c’è, fantasmatico, che osserva (siamo noi?). Infatti, all’inizio e alla fine del film, il palco è percorso da una serie di persone (creature?) con addosso maschere bianche inespressive, che si lasciano una scia dietro. Osservatori dello spettacolo, del film, degli eventi che si susseguono, senza intervenire, nella speranza di non diventare, per qualche evento fortuito, una delle commesse, ultime nella scala sociale.

Il film studia i comportamenti umani all’interno della società, sintetizzata nel negozietto dentro alľinvisibile centro commerciale. Anche se certe volte il film tende a risvolti banali e, forse, fin troppo didascalici, rimane un esperimento originale sul gioco di potere e sulľesigenza di interpretare un ruolo, definito spesso da altri. Tutti infatti impersonificano il proprio personaggio su molteplici livelli (ruolo sociale, ruolo attoriale, ruolo sul palco, ruolo cinematografico), rendendo labile il confine tra verità e finzione filmica (teatrale). Per certi versi ricorda il capolavoro di Leos Carax, Holy Motors, che inizia con un luogo pieno di gente, dal volto oscurato, seduta su quelle poltrone stavolta riempite, e finisce con una donna in limousine che pone sul suo volto una di quelle maschere inespressive, vuote. Come se ci fosse una continuità tra i due film.

È interessante notare come le uniche sequenze al di fuori del teatro siano necessarie per seguire una delle due commesse. Va verso il mare, che pare essere simbolo di libertà. Eppure è l’unica che dopo gli eventi continua a sorridere, nonostante l’immensa fatica, e prosegue con l’imposta messa in scena. Ma è anche l’unica che si spoglia della maschera opprimente sulla faccia. Forse ha capito il gioco al quale sta partecipando, forse non vuole più farne parte. Molteplici livelli continuano ad intersecarsi, e noi siamo probabilmente più consapevoli.

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