Il sapore della felicità, la recensione: alla ricerca dell’umami

Il sapore della felicità recensione film con Gerard Dépardieu DassCinemag

Lo chef francese Gabriel Carvin (Gérard Depardieu) è proprietario e gestore di un pluristellato ristorante di alta cucina, raffinato e redditizio. Ha una moglie (Sandrine Bonnaire) – la seconda – e due figli; il maggiore, Jean (Bastien Bouillon), inoltre, ha deciso di seguirne le orme e lavora alle sue dipendenze. Lo chef giapponese Tetsuichi Morita (Kyōzō Nagatsuka) prepara invece dei deliziosi noodles nel suo piccolo e umile ristorante in una periferia nipponica, aiutato dalla figlia e dalla nipote nella gestione del locale. Le strade di questi due cuochi così lontani – fisicamente e filosoficamente – sono però destinate a incrociarsi e intersecarsi ne Il sapore della felicità (trailer).

Gabriel, a seguito di un infarto e di diversi problemi familiari, rintraccia, grazie all’ipnosi, il motivo della sua infelicità: molti anni addietro era stato battuto in una competizione culinaria da Morita, che aveva vinto grazie ad un piatto ricco del cosiddetto quinto sapore, l’umami. Da allora, Gabriel ha sempre cercato di scoprire il segreto di quel gusto unico. Lo chef lascia allora il ristorante nelle mani del figlio maggiore Jean, pochi giorni prima di un’importante visita da parte di una influencer che dovrà recensirlo. Quindi, all’insaputa di tutti, si reca in Giappone, deciso a ritrovare la passione per la cucina e a riflettere sulla propria vita. Lì incontrerà non solo Morita, ma anche sua figlia Fumi (Eriko Takeda), l’unica disposta ad aiutarlo, e la nipote Mai (Sumire), una ragazza silenziosa perseguitata da un passato doloroso.

La regia e la sceneggiatura del film sono firmate da Slony Sow, cineasta che ha esordito nel 2003 con un cortometraggio, con all’attivo solo un paio di lungometraggi, incluso questo. Il titolo tradotto in italiano – l’originale è Umami – non restituisce pienamente l’atmosfera del film, che ruota attorno alla scoperta e alla ricerca dell’umami, il gusto codificato all’inizio del XX secolo e presente in alimenti quali pomodori, alghe, ma anche salsa di soia, formaggi e funghi. Una ragione di vita e successo per lo chef giapponese e l’oggetto del desiderio di Gabriel. Nonostante le promettenti premesse, però, il film si perde nello sviluppo di troppe sottotrame, andando ad appesantire la storia con tragedie e problemi che meriterebbero un film a sé. Ogni personaggio, infatti, pare essere profondamente infelice, irrealizzato o inerte, e le tematiche trattate vanno dal suicidio al revenge porn, dal tradimento all’assenza della figura genitoriale, dall’alcolismo all’obesità, mescolando argomenti che vengono a volte sfiorati solo in maniera superficiale.

Il sapore della felicità recensione film con Gerard Dépardieu DassCinemag

Lungo il suo percorso Gabriel deve fare i conti con il proprio corpo ormai ingombrante, che non gli permette più di muoversi come vorrebbe, nonché con il proprio alcolismo. La moglie Louise lo tradisce con un critico gastronomico e tutti ne sono a conoscenza. Il figlio maggiore vorrebbe eguagliare i successi del padre ma non riesce nemmeno a farsi rispettare, mentre il minore, Nino (Rod Paradot), si mette all’inseguimento del padre per riportarlo a casa, affrontando il proprio desiderio di ribellione e l’assenza della figura del genitore. Ci sono poi i personaggi conosciuti in Giappone: un uomo incontrato casualmente che gli racconta di non avere più rapporti con la figlia, la quale si scoprirà, grazie ad una casualità forse un po’ forzata, essere la cugina di Fumi. Anche lo chef Morita deve fare i conti con i suoi demoni, visto che non ha ancora superato la morte della moglie. Infine c’è Fumi, madre affettuosa e single che però non riesce a fare breccia nella corazza della figlia Mai, quest’ultima vittima di revenge porn che ha più volte tentato il suicidio – una volta prima degli eventi narrati all’interno del film e una volta durante durante gli stessi – presentato in maniera forse indelicata e leggera.

I problemi personali, primi fra tutti quelli dell’autocommiserato chef Carvin, rallentano la trama, che solo alla fine riesce a riunire tutti i fili e a portare a conclusione ogni linea narrativa, seppure in maniera sbrigativa. In soli 92 minuti, però, è impossibile fornire il giusto spessore ad ogni storia, soprattutto quando tocca tematiche così profonde e delicate. Il film riesce quindi a farci gustare il sapore dell’umami, ma risulta comunque una matassa di storie che si complicano ed aggiungono inutilmente carne al fuoco, terminando in un finale che richiama il regno dell’immaginifico e del sogno ipnotico, quasi a vanificare tutti i risultati ottenuti fin lì. 

Il film è in sala dal 31 agosto.

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