#FEFF21: Limbo, recensione del poliziesco sperimentale di Soi Cheang

In una fase storica che, dal punto di vista politico e sociale, non potrebbe essere peggiore per Hong Kong ecco arrivare un film straordinario, perturbante e suggestivo che dimostra non solo quanto sia forte il cinema nel DNA di Hong Kong, ma anche e soprattutto che l’arte trova nuovi sbocchi per far trionfare la creatività anche nei momenti e nei luoghi in cui la repressione o la sofferenza sembrano essere padroni. Soi Cheang realizza Limbo (trailer), un poliziesco in bianco e nero che si rivela emozionalmente irridescente fin dal primo fotogramma, con una dedizione alla costruzione degli ambienti che fa perfino scomodare il primo periodo di regia teatrale di Stanislavskij per rendere l’idea della precisione compulsiva, ossessiva e accurata con cui è costruita ogni singola scena.

In una città deformata dai rifiuti, dagli scarti e dalla sovrapposizione selvaggia di palazzi, cavi, manichini e cadaveri, un serial killer amputa mani di ragazze muovendosi indisturbato in una metropoli troppo disordinata e fatiscente, dove un senzatetto è solo un sacco invisibile nel mezzo dell’accumulo informe di avanzi urbani. Due poliziotti, in piena antitesi becketiana fra loro, danno la caccia al mostro, districandosi fra conflitti interiori e scontri dialettici sull’etica personale e la funzione sociale della polizia. In un inferno dantesco di prede e predatori, in una città discarica che sembra non avere forma e non avere luce solare, si dovrà scavare nel fango, ripulire corpi ed occhi dallo sporco per vedere angeli e demoni nascosti e per capire chi è il bene e chi è il male.

Se la struttura di Limbo può sembrare perfino semplice nelle soluzioni narrative e nelle tipologie dei personaggi, la regia vira verso una carica di sperimentazione ed originalità unica, si riscrive il genere poliziesco di Hong Kong allontanandosi dagli schemi classici e cercandone di nuovi, rispettando appunto i classici del noir ma virando verso una sperimentazione visiva che va da Tetsuo di Tsukamoto Shinya fino a Seven passando per la storia della videoarte del primo decennio del 2000 e la ricerca postfreudiana dell’arte contemporanea. Un film che può essere guardato e goduto come un poliziesco, oppure esplorato come una mostra d’arte dove ritrovare canoni di sperimentazione modernissimi con tratti di ricerca fotografica che partono da Man Ray e arrivano fino alla cultura cyberpunk e la subcultura dell’arte di strada.

La carriera di Soi Cheang era sempre stata interessante ma non aveva mai lasciato sperare nella nascita di un onda creativa che potesse rigenerare il cinema di Hong Kong ed ora, in un solo film, questa speranza sembra crescere improvvisa e promettente, spingendo quasi ad augurarci che le restrizioni di regime diventino la sfida contro la quale arte ed artisti di Hong Kong lotteranno nei prossimi anni, se sarà loro proibito manifestare in strada che le televisioni e gli schermi siano i nuovi campi di battaglia e che vinca la vita e l’arte che la venera.

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