Falcon Lake (trailer) si apre con un’immagine, guarda caso, di un lago. Le ultime luci di una giornata estiva e un movimento discendente della macchina da presa, gettano delle ombre su un corpo galleggiante a filo d’acqua: non sappiamo se sia ancora in vita o si tratti di un cadavere. Ma il tempo rivela dei respiri, e poi, un risveglio. È quello che scopriremo essere il corpo di Chloe (Sara Montpetit), una ragazza di sedici anni in vacanza in Québec con la sua famiglia, che presto verrà raggiunta da un’altra famiglia, quella di Bastien (Joseph Engel che abbiamo già visto in The Crusade), ragazzo di quattordici anni. I due, insieme al piccolo fratellino di quest’ultimo, condivideranno la stanza.
Ecco, partiamo dalla stanza: polverosa e piena di cimeli cult – tra i quali spicca il poster di Psyco – che all’arrivo delle due famiglie appare come una di quelle case abbandonate di un horror degli anni Ottanta (tanto che la scopriamo solo sotto la luce di una flebile torcia elettrica). È forte l’elemento fantasmatico e soprannaturale che Charlotte Le Bon, regista al debutto cinematografico con Falcon Lake, ci suggerisce. La regista, infatti, “sottoespone”, simbolicamente parlando, la sua fotografia per tutto il film facendo dominare le ombre, cogliendo sia i momenti di ascesa e discesa della luce solare, sia enfatizzando quelle ombre che gli alti alberi di questa provincia canadese proiettano sui protagonisti del film. Ma, come abbiamo esposto ad inizio articolo, lasciando maggiormente spazio al cambiamento e al gioco di luce all’interno dell’immagine.
Ogni frammento di questo delizioso esordio suggerisce scoperta, attenzione e riflessione. Una scoperta che possiamo associare principalmente al personaggio di Bastien. La macchina da presa seguirà principalmente la sua trama nel film, piuttosto che quella di Chloe, cui si lega l’aspetto fantasmatico del film. Lei introdurrà, o meglio rievocherà, l’aspetto orrorifico della vicenda, ovvero il mistero del ragazzino annegato proprio in quel lago che vediamo a inizio film. È lei ad esserne ossessionata, tanto da riproporre nei vari scatti che farà con il suo smartphone (che tanto potrebbero ricordare quella estetica à la tumblr) pose “cadaveriche”.
Lo smartphone è l’oggetto della discussione di quel primo dialogo citato poc’anzi. Sebastian non ce l’ha, deve aspettare il compimento dei quattordici anni, secondo i suoi genitori, per possederne uno. Seppur apparentemente inutile, questa è un’informazione chiave che Le Bon ci fornisce. Nelle scene successive è proprio lo stile di vita “da ragazzino” di Bastien a scontrarsi con quello di Chloe, che nutre uno strano interesse verso il primo. Se da una parte a casa gioca con la Nintendo Switch o guarda cartoni (e la regia di questi frame ancor di più enfatizza la vicinanza di Le Bon al ragazzo), dall’altra assaggia del vino rosso per la prima volta con Chloe.
Le Bon è graziosa e rispettosa nel mettere in scena quella sottile linea che separa il passaggio dall’infanzia all’innocenza. Nell’operare una “dissolvenza”, figurativamente parlando, di questa difficile esperienza. Sebastian perde la bussola, vive una crisi, in un limbo, dovuti alla scoperta del desiderio sessuale (o dell’amore). La regista “pressa” questi corpi e restituisce in primis l’esperienza sensoriale del luogo dove trascorrono questa estate: il ronzio delle mosche, il rumore dell’acqua e del falò di una festa serale, il sudore che scorre lungo la pelle, scandagliata attraverso l’utilizzo di primi piani o di figure intere. L’utilizzo del formato 4:3 chiude ancora di più lo spazio attorno i protagonisti. La grana della pellicola, in una storia ambientata ai giorni d’oggi, crea distacco in alcuni momenti ma dà sostanza e materia alla sopraccennata dimensione sensoriale che Le Bon punta a restituirci.
È, in un modo o nell’altro, quella estate che anni fa abbiamo tutti trascorso: quella dove siamo stati lontani dal resto del mondo, isolati dalla sabbia o da una fitta boscaglia che ci trasportavano in una dimensione lontana. Quella stagione dove vestivamo leggeri, dove le docce erano rapide perché in serata dovevamo uscire di nuovo. Quelle vacanze dove del telefono non v’era traccia. E, dove, da questo carattere straordinario di un mondo altro, scoprivamo altri desideri. Falcon Lake utilizza la settima arte per restituire allo spettatore tutto questo. Il movimento dell’immagine cinematografica – nello specifico, il prolungamento dell’intervallo che intercorre tra i vari stacchi – altri non potrebbe significare che il modo migliore per ri-portarci alla scoperta del desiderio e, in fondo, alla scoperta di noi stessi.
Al cinema dal 29 giugno.