Deep, la recensione del film su Netflix

La recensione di Deep

L’insonnia è una convivente inquieta per chi sa ascoltare i fremiti della notte. Il tempo scorre pigramente nella stasi della veglia. Lancette rumorose, palpebre inermi e lo sguardo vigile verso il soffitto. I quattro protagonisti di Deep (trailer) lo conoscono bene questo stato di costrizione che il film, forte di una regia a dieci mani (Sita Likitvanichkul, Jetarin Ratanaserikiat, Apirak Samudkitpaisan, Thanabodee Uawithya e Adirek Wattaleela), sceglie come punto di partenza.

Scritta e diretta da un gruppo di giovani studenti di cinema dell’Università di Bangkok, la pellicola originale Netflix è incentrata, attraverso un taglio quasi autobiografico, attorno alla storia di quattro studenti di medicina: Jane (Care Panisara Rikulsurakan) una ragazza diligente che si prende cura della sorella minore e della nonna malgrado le difficoltà economiche, Win (Kay Lertsittichai), uno studente vivace e festaiolo orfano di madre che vive un rapporto conflittuale con il padre, Cin (Fern Supanaree Sutichitwong), una spigliata influencer di successo e Peach (Krit Jeerapattananuwong), goffo e introverso appassionato di videogiochi. I quattro protagonisti accetteranno (per ragioni diverse talvolta poco chiare) di partecipare al progetto Deep, un esperimento neuroscientifico condotto da una casa farmaceutica tedesca e diviso in tre livelli: ad ogni partecipante verrà inserito un microchip capace di estrarre la Qratonina dal cervello, una sostanza rilasciata durante il giorno quando siamo svegli. Ogni livello può considerarsi completato quando la percentuale di Qratonina acquisita, indicata da un orologio da polso, raggiunge il 100%.

L’esperimento sembra molto semplice e soprattutto redditizio, con una retribuzione minima di centomila bahts (la moneta thailandese) per ogni volontario. Un gioco da ragazzi per i quattro studenti, se non fosse per una piccola controindicazione: ogni livello prevede di restare svegli fino all’acquisizione del 100% di Qratonina: se ci si addormenta per più di sessanta secondi, il microchip va in cortocircuito causando un infarto e la morte immediata. Dopo una fase iniziale di entusiasmo, il progetto Deep prenderà una piega inquietante per cui i protagonisti insonni si troveranno alle prese con una sfida disperata ed estrema, la quale non priva di sorprese sarà l’ago della bilancia del loro destino.

Risulta assolutamente apprezzabile la scelta di Netflix di lasciare un posticino nel suo catalogo ad un progetto realizzato da giovani aspiranti filmmakers desiderosi di far sentire la propria voce e di mettersi alla prova con il mezzo filmico. Tuttavia, tra il dire sognante di giovani autori e il fare cinematografico c’è di mezzo un mare di imprecisioni, macchie sintomatiche di un utilizzo ancora acerbo della macchina da presa per cui Deep, più che la voce di giovani registi, sembra piuttosto l’epitaffio di un’odissea moderna seppur anonima e pervasa dal caos; suggestiva solo nelle premesse, l’istanza narrante precipita perché troppo ancorata al mero compitino e la rigidità con cui la sceneggiatura viene forgiata da una struttura solida è solo la punta di un iceberg troppo imponente per non essere presagio di sventura.  

Eppure quella di Deep è tutt’altro che una morte annunciata. L’azzeccata scelta di un incipit intrigante finisce nel dimenticatoio a causa di trovate poco felici a seguire ed evapora tra una scrittura priva di sottotesto, scialbi siparietti comici e reazioni forzate di personaggi assemblati in un’accozzaglia di stereotipi tipici del più convenzionale teen movie. A sorprendere invece è la componente tecnica del film, forte di una fotografia che va oltre le aspettative verso un progetto dal budget così modesto, come mostra il minimalismo delle scene e delle ambientazioni.  

Le lacune della pellicola thailandese infatti sono tutte di natura diegetica e si configurano come le cicatrici di un film che prova ad introiettare la lezione del cinema narrativo classico in uno sfoggio didascalico di espedienti (rapporti di causa-effetto, utilizzo della voice-over, un contesto ambientale delineato e dei personaggi con dei ruoli ben definiti e funzionali all’intreccio) talvolta sterili e fini a se stessi. Il risultato finale non è dunque una pratica assertiva di tale lezione, bensì una macchietta imbarazzata di forme thriller fantascientifiche del cinema che fu.

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