Cinema Speculation di Quentin Tarantino. Intervista al traduttore Alberto Pezzotta

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Il 21 marzo è uscito in Italia il saggio Cinema Speculation scritto da Quentin Tarantino, pubblicato da La Nave di Teseo. L’uscita è stata accompagnata da un breve tour promozionale con l’autore. Il cineasta statunitense ha infatti incontrato il pubblico italiano in due occasioni, il 6 aprile a Brescia al Teatro Grande e il giorno successivo a Milano nella libreria Mondadori di Piazza Duomo. Il volume sta riscuotendo un ottimo successo di vendita. Approfittiamo dell’occasione per scambiare alcune parole con il traduttore, il noto e apprezzato critico cinematografico Alberto Pezzotta.

Caro Alberto. Cinema Speculation è il secondo libro di Quentin Tarantino che traduci in italiano. Come è nata questa avventura da traduttore del maestro con La Nave di Teseo?

Intanto perché traduco libri da trent’anni. In questo tipo di lavoro, certo, non sempre ti trovi in sintonia con tutti i testi che ti capita di tradurre, ma bisogna farlo nel modo migliore. Ovviamente non è il caso dei due testi scritti da Tarantino, la cui traduzione è stata una gran bella cosa un gran divertimento.

Sin dalle sue prime apparizioni pubbliche in Italia, come quella al Noir Film Festival del 1992, molti ricordano quanto fosse difficile capire alcuni passaggi del modo di parlare di Tarantino, pieno di slang nordamericani. Hai trovato qualche difficoltà nel tradurre i suoi testi?

Il linguaggio di Tarantino, anche quando scrive, è molto colloquiale, con ricorrente uso di espressioni gergali e turpiloquio. Quando non c’era ancora internet i traduttori tormentavano gli autori a suon di fax chiedendo spiegazioni quando non sapevano come tradurre alcune frasi. Oggi con il web è diverso, basta inserire uno slang anche oscuro e trovi  comunque un contesto da cui risalire al significato. La maggiore difficoltà nel tradurre Cinema Speculation è stata quella di dover vedere tutti i film menzionati nel libro per capire cosa intendesse in certe osservazioni, anche perché Tarantino dà per scontato che chiunque conosca a memoria le scene dei film di cui parla. Per esempio, in Pistola nera, spara senza pietà, vecchio film di blaxploitation del 1972, Quentin parla di una scena in cui il protagonista si ritrova con la sua arma in mano, gun, ma “gun” può significare sia “pistola” che “fucile”; quindi, per tradurre bene devi andarti a vedere il film!

Nessuno si aspettava C’era una volta a… Hollywood a mo’ di romanzo, dopo che uscì il film. Quale è, secondo te, la cosa più sorprendente del libro rispetto al film?

Il libro e il film sono due cose diverse. Perché nel romanzo si parla di cose che nel film non si sapevano oppure che si sospettavano solamente. Il personaggio di Cliff Booth, ad esempio, nel film è più sfumato, nel libro è una sorta di assassino, spietato, quasi psicopatico. L’altra qualità del romanzo è quella di espandere l’universo narrativo del film, dando più spessore ai personaggi che, nell’economia di quasi tre ore film (per quanto non siano poche), per forza di cose sono meno approfonditi. Poi nel romanzo vengono affrontati una serie di generi e sottogeneri del cinema americano che, per quanto non affrontati con sfumatura saggistica, sono raccontati con grande acume e competenza. E poi si parla di quella Hollywood mainstream, poco glamour, che non è la serie B a cui lui è tanto legato, ma neanche la serie A di Peckinpah, per fare un esempio. Una “zona grigia” che a Tarantino interessa per la sua mediocrità, anche perché se ne parla poco e niente. Per esempio dei film di guerra della fine degli anni Sessanta che non sono belli e non sono neanche cult. Non ne parlano né i critici, né tantomeno i cinefili.

Ricordo che dicesti in un’intervista di molti anni fa che l’etichetta “cult” ti infastidiva, così come “trash” e “stracult”. Le reputi quindi etichette superficiali?

Quello che posso dire è che Tarantino per molti anni è stato liquidato come regista trash, amante del peggior cinema oscuro, di serie C e cose simili. Ma a lui non piacciono solo questi film, va ricordato. E lo si può leggere anche in Cinema Speculation, in cui parla di Rocky, Taxi Driver e di tanti altri film che hanno fatto la storia del cinema. La prova che Tarantino non è attratto soltanto dalla exploitation e dai film più oscuri e sconosciuti del mondo.

Anche per il cinema italiano bisognerebbe smetterla di pensare che a lui piacciano soltanto i poliziotteschi o gli spaghetti-western.

Non ci metterei la mano sul fuoco in realtà. Vero che ama Castellari, Corbucci e altri registi che all’epoca arrivavano al cinema negli USA, però è anche vero che sicuramente lui non conosce tutto il cinema italiano allo stesso modo. Anche nel documentario su Corbucci diretto da Luca Rea, Django & Django – Sergio Corbucci Unchained, in cui Tarantino è intervistato, si capisce quanto conosca i western all’italiana, però ammette che altri generi non gli interessano proprio. La grandezza di Tarantino critico cinematografico non sta tanto nella presunta riscoperta di Mario Bava – Scorsese, Tim Burton e Joe Dante lo hanno preceduto di decenni – quanto nello spiegare quanto film come Rocky o la serie dell’ispettore Callaghan abbiano lasciato un solco indelebile nell’immaginario collettivo americano degli anni Settanta, affrontando il tema quasi da sociologo,  attento ai risvolti politici, con un’impronta da cultural studies davvero pertinente e illuminante.

Ormai si sta dando per scontato, stando alle dichiarazioni di Tarantino di qualche anno fa, che arrivato al decimo film e a sessant’anni di età, abbandonerà il set. Credi che, qualora andasse davvero così, farà una scelta giusta? 

Tarantino ha detto che spesso i grandi registi in tarda età hanno girato film abbastanza deludenti, e che sarebbe stato meglio che lasciassero un buon ricordo, ritirandosi. Posso essere d’accordo. Ma gli ultimi film di Tarantino, al contrario, sono sempre più interessanti; quindi, qualora dovesse fare altri film sulla scia di C’era una volta… a Hollywood ben venga!

Infatti, in molti sostengono che questi suoi ultimi film, da The Hateful Eight a C’era una volta… a Hollywood, siano i suoi migliori. I film della maturità. Ti ritrovi con questi giudizi quindi?

Sicuramente è cambiato il suo stile. Proprio in questo periodo ho rivisto Pulp Fiction, un film sul quale, nel corso degli anni, ho cambiato spesso idea e punto di vista. Personalmente preferisco C’era una volta a… Hollywood a Pulp Fiction, ma è anche cambiato il contesto culturale. Quel film risale al 1994 e nasce nel clima del postmoderno. Probabilmente Tarantino non ha mai letto i saggi di Jean-François Lyotard né tantomeno quelli di Fredric Jameson, ma un po’ di critica abbastanza complessa sì, come quella di Pauline Kael. E Pulp Fiction è un film postmoderno, in cui si valorizza il saccheggio, il citazionismo, una libera ricombinazione della storia del cinema come se fosse un supermercato in cui il regista attinge liberamente, prendendo di qua e di là con l’ottica dell’artista. Oggi un’estetica così non c’è più, il postmoderno è finito, ragione per cui anche Tarantino non ha più un’identificazione culturale/estetica di quel genere. Non potrebbe più fare Pulp Fiction o Kill Bill. Però Tarantino, come tanti artisti che in parte possono essere inconsapevoli di quello che fanno, ha sempre avuto le “antenne dritte” su quello che succedeva nell’arte e nella società del suo tempo.

  

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