Dopo Francesco Alò, prosegue il ciclo di interviste di DassCinemag dedicato al mondo della critica cinematografica con un ospite questa volta più atipico, molto più punk nell’approccio, ma non per questo meno valido nella presentazione dei propri contenuti. Federico Frusciante nasce come proprietario della ormai leggendaria videoteca Videodrome di Livorno e viene presentato al grande pubblico dai cineasti I Licaoni nel lontano 2011. Frusciante è stato infatti uno tra i primi a parlare di cinema in maniera costante su una, ai tempi emergente, piattaforma web come YouTube, sulla quale continua ancora oggi più attivo che mai (link al canale).
Qual è il tuo concetto di critica e all’interno di esso come stabilisci l’equilibrio tra opinione e criterio oggettivo? Sempre in quest’ottica, le esperienze e il vissuto cinematografico di un critico all’interno di un’analisi quanto devono uscir fuori?
Parto col dire che io non mi considero un critico nel senso stretto del termine e se anche mi ci considerassi, sarei sopra le righe. I critici sono gente che si è laureata e si è fatta il culo in maniera diversa per prendersi quel foglio. Secondo me il lavoro del critico istituzionale sarebbe quello di avvicinare il più possibile lo spettatore a capire il cinema attraverso le sue spiegazioni più o meno tecniche, ma comunque dando degli stimoli e delle nozioni che non tutti conoscono per comprendere i vari aspetti di quest’arte. Tutto ciò in maniera molto basilare e con leggerezza, per far appassionare lo spettatore a quella che è la creazione dell’opera cinematografica, essendo però meno legato all’industria di quanto non lo sia oggi. I critici di un tempo, come Ghezzi o Canova nei loro periodi migliori, erano molto più diretti verso uno spettatore nel fargli assimilare dei metodi oggettivi per vedere se una cosa è fatta bene o no. Poi tutto ciò può sbattere contro i tuoi gusti, quella è un’alta cosa, ma il critico laureato dovrebbe provare a trasmettere allo spettatore ciò che ha imparato con i suoi studi, senza però appesantire il tutto. Poi c’è da dire che l’aver studiato non vuol dire sempre capire in pieno ciò che si ha studiato. La critica ha un po’ perso la funzione di far innamorare le persone del cinema ed è più quasi un qualcosa di egocentrico, altrimenti saremmo pieni di filosofi, pensatori e grandi registi, invece secondo me siamo un paese di ignoranti. Parlando di critica scritta e quella in video, hanno linguaggi molto diversi; io con i miei video cerco di spiegare perché un film è narrato bene, cos’è la fotografia, cos’è un taglio e tutto ciò che lo spettatore medio giustamente non sa. Si dovrebbero dare quindi più spiegazioni in questo senso, si dovrebbe essere un po’ più oggettivi verso l’opera ed entrare poi nel soggettivo quando la si critica. Se critichi un film come The Lighthouse, ad esempio, devi dare comunque un’oggettività sulla forza visiva che ha. Se poi ciò che racconta e il come lo fa non ti interessa, diventa molto soggettivo e li può venir fuori l’idea della discussione. Un critico però dovrebbe dividere queste due fasi, per far capire allo spettatore il valore di determinati aspetti al di fuori del gusto soggettivo e questo secondo me non esiste quasi mai nella critica e non mi piace. Ovviamente non tutti, ce ne sono di bravi, però sembra che la maggior parte dei critici scrivano per loro e non per qualcuno che legge. Poi è normale che sia necessario che esca l’idea di come uno guarda il film e il suo passato filmico. E’ impossibile non metterci del suo e certe cose devono uscire, però un vero critico dovrebbe dosare quest’aspetto. C’è da considerare però che molti scelgono di non far uscire troppo il proprio pensiero, perché ad oggi se lo fai e sei troppo anarchico nel modo di fare, non ti fanno più lavorare. Bisognerebbe sempre dare un valore all’opera per forma e sostanza e poi dare il proprio. Oggi invece si dà subito il proprio e lo trovo sbagliato, soprattutto da parte di quei critici togati che dovrebbero avere una responsabilità data dalla propria cultura e metterla in mano allo spettatore. Invece sembra che questa cultura sia diventata propria per elevarsi rispetto degli altri e spesso accusano anche me di voler primeggiare, ma non è assolutamente vero. Io sono di Livorno e ho un modo di esprimermi molto diretto e “violento”, perché senza quello non credo arriverei così tanto alla gente. Poi oggi c’è sempre di più la voglia di accontentare la massa, cosa di cui il critico se ne dovrebbe fregare e anzi, se convinto che la massa sta sbagliando, sbatterglielo in faccia con molta convinzione e cattiveria, per arrivare meglio. Io porto l’opinione di uno spettatore che si è fatto lo studio da solo e che quindi non ha la griglia mentale di pensare che devo per forza amare Antonioni, ad esempio, pur amandolo. Anch’io ho letto tutti i libri che fanno leggere all’università che ti servono per capire il cinema, ma poi devi guardarlo e se non hai un certo tipo di sensibilità, puoi fare il critico quanto ti pare, ma non basta. Se studi per 20 anni e poi non capisci la bellezza di 2001: Odissea nello spazio mettendolo tra i film più brutti di sempre hai solo buttato tempo. L’industria e i registi dovrebbero aver paura del critico, non avercelo al proprio servizio, ma in Italia è così. Per esempio, non ho trovato un critico in Italia che sia uno, perlomeno su carta stampata, che abbia stroncato Tolo tolo lì, l’ultima merda di Zalone, per accontentare il pubblico. Io non ho da accontentare nessuno, nemmeno i miei followers, sono cazzi loro se non gli piace.
Come vedi la figura del critico oggi e in che modo credi abbia impattato l’avvento di Internet? Reputi che abbia perso importanza sociale nel tempo o si sia solo mutata e adattata?
La differenza netta è che quasi tutti i critici si stanno spostando in rete, il che non è un bene perché purtroppo io sono d’accordo con chi dice che tra chi parla su YouTube uno su cento sa quello che dice. Pur avendo amici che lo fanno, chiaramente distinguendo dalla persona che sono, molti secondo me non sanno proprio cos’è il cinema e quasi sempre sono quelli più seguiti, il che è pericoloso. Si parla sempre meno del cinema e sempre più delle cazzate che ci girano intorno; si arrivano a fare 50 minuti di video reazione su teaser, foto e cazzate simili. La gente è convinta che la critica sia quella e la critica vera è costretta ad abbassarsi a questo per arrivare al pubblico. Io la vedo così. Il rapporto che c’è tra critico e follower è molto delicato, perché assorbono molto di quello che dici e mostri. Internet ha portato molte voci, ma sembrano quasi tutte un unico coro, parlano tutti delle stesse cose perché hanno capito ciò che porta soldi e visibilità. Sono pochi quelle che ne escono fuori bene e se da una parte la rete ha portato positivamente molta più gente a volersi esprimere, la cosa negativa è tutti quelli che lo fanno, credono di dire la cosa giusta, non c’è confronto. Poi io sono dell’idea che molti dei critici che oggi ancora lavorano sono prezzolati: chiaramente non si intende che ti arriva la bustarella, non siamo mica negli anni ’80. Però se esce un film e tu lavori per un blog, io ci faccio 5000 euro di pubblicità e il film poi è bello, punto. Non faccio nomi di chi conosco, ma so che esistono ancora registi, produttori e critici anche grossi che distruggono film perché non ci prendono soldi. E questo non è colpa solo dei critici, ma soprattutto degli editori. Poi va sempre riconosciuto all’opera quel valore minimo sindacale dato dal lavoro che c’è dietro, che ti permette di parlarne, e che vale sempre più di te che ne stai parlando.
Una cosa che mi è venuta in mente, molto interessante secondo me, è anche la varietà di critica che c’era su uno stesso film e che generava discussione.
La varietà è importante ma secondo me non si deve mai mettere in discussione la mezza stella con le cinque. Si può discutere qualsiasi altra cosa ci sia nel mezzo, ma non c’è molto da discutere su film come Quarto potere o al contrario Albakiara. Film così storicizzati possono piacere o meno, ma non sono discutibili a livello di critica, non si può avere diversità di opinione a livello qualitativo su Quarto potere, al massimo a livello narrativo e su come può arrivare o no a diverse persone. Alcune cose però sono indiscutibili.
In un mondo in cui si legge sempre meno, si è avvertito sempre di più, come dicevamo, il passaggio dallo scritto all’audiovisivo. Il format della recensione, ad esempio, sopravvive anche grazie al forte supporto datogli da piattaforme come YouTube, Twitch o altro. Durante questo passaggio, credi si sia perso qualcosa?
In realtà no, non è che perda qualcosa, un’espressione facciale dice più di mille parole. Sono diversi, io sono marxista e credo che i video, compresi i miei, siano un mezzo fascista perché non li puoi controbattere. Il video fa l’effetto telegiornale, che è molto pericoloso, ovvero che se lo vedi al telegiornale allora è vero per forza e la critica su YouTube sta diventando questo. La scrittura la subisci meno e te la sistemi anche per te, non so come farvi capire. Non ha un vero e proprio tono e la secchezza del video non permette la stessa riflessione della lettura. Un volto che parla è diretto e lascia meno spazio ad altro, rispetto alla lettura che necessita di fantasia, interpretazione e ragionamento per essere compresa e intuita. Ad un mondo capitalista e comandato da pochi fa comodo che si perda la lettura che fa ragionare e si preferisca il video che lobotomizza e controlla i più i giovani. Non a caso non ci sono quasi mai pubblicità di libri, ma solo di stronzate. Il video è un mezzo che richiede meno sforzo rispetto alla lettura e per questo sta andando sempre di più. Perché bruciavano i libri e i film molto meno? Perché il libro fa riflettere e nella sua complessità e lunghezza nell’assimilarlo, resta molto più rispetto a un video. E proprio perché più complicata da essere compresa, la scrittura richiede anche maggiore sforzo e tempo per essere concepita. Mi è capitato spesso di scrivere per riviste pezzi di 7000 battute e ritrovarmelo tagliato a 4000 e riscritto, mi fa rodere il culo. Il mio non essere un critico nel senso stretto del termine mi porta ad essere più libero e fare video come voglio, senza prepararmi un cazzo, senza badare troppo se sbaglio un nome o una data, ma con l’intento principale di far venir voglia di scoprire il film di cui parlo o di far cambiare idea al limite. Io servo a quello. Quando scrivo ovviamente è un altro linguaggio: vanno via le parolacce e certi eccessi o errori che nel video capitano andando a braccio.
Oltre al grande lavoro d’informazione che fai sul cinema più di nicchia, uno dei tuoi marchi di fabbrica è quello distruggere in maniera spassosa film che tu reputi pessimi. Personalmente ti diverte più parlare di un grande film o distruggerne uno orribile? Nella stessa ottica, preferisci che il tuo pubblico ne guardi uno magnifico o ne eviti uno inguardabile?
Io amo parlare del bel cinema e mi diverto anche molto di più, perché quando parlo della merda mi incazzo, perché mi aspetto sempre e spero di vedere bel cinema. Quando sono andato a vedere Avengers: Infinity War, avevo delle aspettative altissime, ma alla prima mezz’ora mi sono accorto che mi stavano prendendo per il culo. Poi la gente ormai va fuori di testa quando tocchi qualcosa che gli piace. Io adoro Yuzna, se uno arriva e mi dice che fa schifo, non mi sento offeso nel personale, mica gli faccio schifo io. Ora è tutto così, non si può dire nulla che si incazzano tutti. Tornando alla domanda, preferisco ovviamente parlare di cose belle perché comunque, per quanto ti puoi divertire a stroncare un cesso di film, non è piacevole. Se domani Micheal Bay arriva e mi fa un bel film, io non ho nessun problema a dire che ha fatto un bel film. Quando andari a recensire Ga’Hoole di Zack Snyder io lo misi tra i migliori dell’anno perché lo considero un bel film. Forse nell’animazione ha più talento perché il ralenty, l’esaltazione e la saturazione dei colori hanno altre regole che puoi spezzare più facilmente. Certo è più facile parlare della merda ed è anche divertente da vedere; infatti mi diverto e mi fa piacere quando mi scrivono quanto hanno riso su alcune mie stroncature e che faccio sorridere, anche in periodi così brutti. Quelle sono soddisfazioni e quei momenti di risate nascono spontaneamente proprio perché io non mi preparo nulla e si sente che sono naturali.
Si parla ormai molto del cinema come industria e molti pensano che la soluzione sia ispirarsi al modello americano. Secondo te come si può ricostruire un mercato sul cinema italiano?
Detesto chi intende il cinema solo come industria, perché poi viene meno il lato artistico. Se non riparte l’arte, non riparte l’industria, non il contrario. Imitare il modello americano è il modo sbagliato per far ripartire il cinema italiano. Bisognerebbe ripartire da talenti a giovani da far lavorare anche con poche risorse per far rinascere qualcosa. Il cinema italiano al momento è morto, se non si considera quei 7 film italiani buoni che escono ogni anno, quando nel resto del mondo ne vengono fuori molti di più. Come la crei un’industria senza operai? Di gente brava ce n’è in giro, ma nessuno li fa lavorare e quelli che lavorano (anche chi sapeva fare il proprio mestiere) li hanno indirizzati alla commediola per famiglie, al cinepanettone o al drammone da due lire, non esiste altro in Italia. Un modello da seguire sarebbe la Francia, che sa che per mandare avanti un’industria ha bisogno di un Dardenne, che è libero di esprimersi. In Italia non lavorerebbe mai, io mi immagino un Elio Petri che nasce ora e che vuole fare cinema. Mi immagino come gli fanno fare Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, sìsì… Te guarda Soavi, che ha fatto Arrivederci amore, ciao, un capolavoro di film, ma ha pestato i piedi sbagliati e poi gli han fatto fare quel film fascista del Sangue dei vinti e poi la befana… Il cinema ha bisogno di avere 50, 80 registi e sceneggiatori che creino un’industria, anche commerciale, ma che parta da una qualità che deve riesistere. Un’industria non nasce da una spazzatura e non bisogna fare il film all’americana. Il cinema americano degli anni ’30-40-’50 intendeva sì il cinema come industria, ma registi come Hitchcock, Welles, Hawks, Ford erano furbi e aggiravano le regole di quest’industria mandandola comunque avanti, nonostante avessero poi poco di industriale. Poi un film all’americana è impossibile da fare in Italia, sono due realtà troppo diverse. Un film di basso costo americano, ma proprio basso, sono 2-3 milioni di euro, mentre in Italia parliamo di 50 mila euro. Gli artisti come Daniele Misischia e tanti altri ci sono, ma non gli danno niente per lavorare. Ma come la crei un’industria di qualità in una società dove abbiamo le lasagne e vanno tuti da McDonald? Siamo “americanofoli”, ma della parte peggiore dell’America, quella di merda, perché negli anni ’80 non si andava a vedere Yuzna, ma Codice Magnum con Schwarzenegger. Tutti i registi italiani con cui ho parlato mi hanno confermato che la morte del cinema italiano l’ha portata l’arrivo di Craxi a metà anni ’80 con la politica a decidere a chi andassero i contributi statali per questo o quell’aggancio. La botta finale poi l’ha data con la televisione commerciale Berlusconi, che ha preso tutti i registi di genere e non ha fatto più fare un cazzo a nessuno, eliminando il cinema di genere italiano per indirizzare il pubblico alla sua televisione e a filmacci come i cinepanettoni, che non a caso sono molto televisivi.
Da uno dei suoi ultimi esponenti quale sei, secondo te il luogo videoteca, inteso proprio come luogo di cultura, ha speranza di sopravvivenza o di rinascere? Se sì, come pensi si possa rinnovare?
Secondo me no, la videoteca non ha più senso di esistere, nonostante per me sia l’opposto, ma per la gente è così. Non si esce più di casa, ormai si trova tutto online. Nella mia videoteca si ritrova tutti i giorni tanta gente, ma sono aperto ormai da 8 anni senza prendere una lira e non può sopravvivere. Ora che siamo rimasti in 40 di videoteche in tutta Italia, io fossi lo stato o i comuni, per legge obbligherei a fare una videoteca comunale in cui se hai il reddito sotto un minimo non paghi o comunque paghi molto poco, mettendoci qualcuno a lavorare che sa fare il proprio mestiere. Tutti dovrebbero avere la possibilità di raggiungere quel minimo indispensabile per recupere opere importanti. Secondo me non si è capito cosa è voluto dire perdere un luogo come la videoteca, quando ne chiusero 12.000 in 5 anni. Se avessero chiuso 12.000 librerie private avrebbero fatto la rivoluzione, ma delle videoteche non gliene frega un cazzo a nessuno, né ai produttori, né ai distributori e né tanto meno al pubblico purtroppo. In videoteca discuti e trovi chi ne sa più di te e ai giorni d’oggi non piace. Ma poi il supporto fisico, va detto, ha un’altra qualità: il Blu-ray è fatto per ottimizzare la visione attraverso lo schermo. L’on-demand ha un segnale che è in caricamento in diretta e non può raggiungere la qualità del disco. Non solo di qualità e definizione, ma proprio la resa del film. Sembra quasi che nello streaming sia fatto un lavoro di post-produzione in più. Ho visto per esempio The Irishman in Blu-ray ed è incredibile, su Netflix a confronto fa schifo.
Considerando la situazione di passaggio in cui siamo tra critico del ‘900 e quello del web, quali consigli puoi dare a un giovane che vorrebbe provare a intraprendere questo mestiere in questo momento di incertezza?
Io personalmente non ho iniziato a scrivere di cinema prima di 30 anni e sono convinto che per fare critica ci vuole tempo per conoscere bene di ciò che si parla. Se per esempio un critico di 20 anni al tempo andava a vedere Seven, lo avrebbe definito un capolavoro immane perché magari non aveva mai visto M di Frtizlang o Psycho. Serve quindi conoscere bene la materia e conoscere bene i vari scalini, per una critica completa. L’unico modo per ora di scrivere, ed è un consiglio che non ha molto a che vedere con il mondo del lavoro perché facendo così lavori ancora meno, è quello di fregarsene di chi ti dice come e cosa scrivere e parlare solo di quello che cazzo ti pare a te, in maniera diretta, senza la puzza sotto al naso. Devi crearti un modo di scrivere riconoscibile; quando leggevi Ghezzi, Canova, Gervasini o tanti altri, li riconoscevi perché avevano un’impronta. La critica non è in crisi, lo è più quella editoriale, ma c’è tanto spazio. I giovani possono sempre aprire un blog o una realtà in cui scrivere a palla di fuoco sul cinema e piano piano acquisire la tecnica della scrittura e l’amore per ciò che si fa. Per le nuove generazioni poi serve un minimo la voglia di mettersi in gioco e fottersene se uno è brutto, basso, grasso, bello o ha la camera dietro brutta e buttarsi. Poi ci sarà sempre chi scrive tanto per farlo e chi è un grande scrittore di cinema, però ci si deve provare. Ovvio, non siamo tutti geni, ma abbiamo tutti una scintilla che va coltivata e fatta diventare un fuoco. Poi se tu bruci, poi brucia anche chi è intorno a te. Magari spendere 2 o 3 anni della propria vita a farlo gratis in una piccola redazione, cercare gente come te o altri che ti possono aiutare a farsi conoscere in giro, fino ad arrivare ad un certo punto dove si ha una piccola base e iniziare a fare qualche soldo con la pubblicità. Per non far morire la critica serve più interazione con il pubblico e il motivo per cui sta morendo è perché lo stesso pubblico si sente dire le stesse cose che dice lui stesso. A quel punto non si capisce più il valore di chi critica ed è un problema. C’è da dire che si vuole lavorare più facilmente, ci sono modi più efficaci come essere accomodante con chi conta, mi dispiace dirlo ma è così. Io poi sono molto stronzo con la critica, ma in realtà la leggo quasi tutta, quindi sono doppiamente stronzo perché compro tutto, anche la merda. Vedo molti meno video rispetto a quanto leggo, perché mi infastidisce proprio anche rivedere i miei video: se voglio informarmi sul cinema preferisco leggere.