Boiling Point, la recensione: l’inaspettata virtù del montaggio

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Prima c’era stato Arca Russa di Sokurov. Anzi, per la precisione prima c’era stato Alfred Hitchcock – che pure era il sostenitore dell’adagio “I film sono come la vita, con le parti noiose tagliate” – a cedere alla tentazione e girare Rope, un film che di parti tagliate non ne aveva neanche una. O meglio, i tagli c’erano, ma erano goffamente nascosti dal passaggio di un personaggio davanti alla macchina da presa, consentendo il mantenimento di un’illusione di continuità temporale che la tecnologia dell’epoca e la lunghezza fisica della pellicola non consentivano. Ma in particolare dal film di Sokurov in poi sembra esserci stata una specie di svolta; sia stato a causa dello sviluppo di tecnologie sempre più innovative, oppure per la nascita di estetiche sempre più ibridate con il mondo videoludico e digitale, fatto sta che i film girati in un unico piano sequenza sono ormai un genere cinematografico a parte che conta sempre più esponenti nella sua schiera.

Si inserisce nel filone anche questo Boiling Point, (trailer) di Philip Barantini, che punta la riuscita della gimmick quasi interamente sulla capacità dei suoi (notevoli) interpreti e sulla peculiarità dell’ambientazione, la cucina di un ristorante gourmet durante una serata particolarmente ricca di complicazioni e imprevisti. Ai fan della recente serie The Bear non potrà non risuonare un campanello nell’orecchio, ed è quantomeno fondato il sospetto che l’uscita italiana in sala di questo film britannico di un anno fa sia legata in qualche modo al successo di un altro prodotto (fra l’altro analogamente provvisto di virtuosistico long take nel suo settimo episodio) dedicato allo stressante mondo della ristorazione.

Boiling Point recensione film Dasscinemag

Nei lunghi tracking shot di Barantini, infatti, veniamo gradualmente a conoscere i retroscena del ristorante londinese Jones & Sons, le varie preoccupazioni economiche e familiari del protagonista Andy (Stephen Graham) e le piccole vicende umane del suo staff. Nel corso della serata risulterà chiara la fragilità di quell’ecosistema, e anche un piccolo errore rischierà di far crollare tutte le tessere del domino.

Se le caratterizzazioni – per merito di un ensemble particolarmente energico – funzionano, i limiti drammaturgici di Boiling Point sono inscritti nella sua stessa natura di “film in piano sequenza”. Anche se Barantini fa di tutto per cercare di differenziare ambienti e situazioni, lo sguardo registico rimane abbastanza statico e le possibilità inventive del medium vengono dimezzate. Cercando di mantenere una sequenza ininterrotta, il regista si trova costretto a seguire un personaggio per tutta la durata della sua camminata fuori dal ristorante, sia all’andata che al ritorno, per portarci da uno spazio all’altro e presumibilmente dare tempo a scenografi e attori nell’altra location di prepararsi. Per quanto i tempi siano calcolati alla perfezione, è impossibile non domandarsi quanto un taglio di montaggio avrebbe potuto veicolare le stesse informazioni con più efficacia (e con minore sforzo produttivo).

Le ragioni del perché non sia stato fatto sono chiare, e sono di natura sia promozionale che di protagonismo registico. Il punto non più è solo raccontare una storia, ma è raccontarla senza interrompere la take. Se si perde quello, non si può creare un piccolo “caso” intorno alla pellicola e non ci si può congratulare con sé stessi per la riuscita di un’impresa così impegnativa.

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L’altra ragione deriva dalla convinzione – condivisa da molti autori – che a un piano sequenza corrisponda automaticamente a una maggiore immersione dello spettatore, essendo teoricamente più vicino alla nostra percezione della realtà. Ma si tratta di una teoria priva di fondamento, siccome il cervello umano è dotato di una specie di moviola tutta sua che ci permette di “tagliare” e di mettere a fuoco gli elementi che ci piacciono, tralasciando quelli che riteniamo superflui. Il cinema, come rappresentazione metaforica della nostra percezione, si è sempre sforzato di fare esattamente quello, e per quanto esista il cosiddetto “montaggio interno” dei piani sequenza più celebrati, realizzare coreografie elaborate e complesse per 90 minuti è estremamente difficile senza ricorrere a qualche intervento digitale e tagli nascosti.

Anche senza questo problema stilistico, Boiling Point esaurisce le trovate a metà pellicola, facendo scatenare la crisi del dramma in maniera abbastanza telefonata – (SPOILER) chiamiamola “l’allergia alimentare di Checkov” (FINE SPOILER) – e interrompe la sua corsa in un punto arbitrario. Dovendo infatti concludere la vicenda in qualche modo, il regista-sceneggiatore decide di chiosare con un evento forzatamente tragico e un po’ ricattatorio che risulta più che altro come un tardivo appello alla compassione dello spettatore. L’appiattimento dell’arco narrativo è un’altra conseguenza dell’immolazione del contenuto davanti al Dio della forma. Barantini avrebbe dovuto prendere esempio dal settore che voleva ritrarre: come in un buon menù, a volte è la varietà a fare la differenza.

Al cinema dal 10 novembre.

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