Avengers: Endgame, il mestiere del cinema

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Approcciarsi al discorso che avvolge Avengers: Endgame richiede una discreta dose di elasticità onnicomprensiva. Potremmo guardarci tutti in volto e raccontarci che l’ultimo (ultimo?) capitolo della saga supereroistica Marvel sia solo l’ennesimo cinecomic, ma poi dovremmo arrossire colpevoli nel nostro intimo di averla sparata grossa. Grossissima. Discutere di questo film come cellula a sé stante e rinunciare a considerarlo in virtù del discorso cinematografico che ha preso il via oltre dieci anni fa con il primo Iron Man sarebbe fargli un torto consapevole e frutto di una miopia critica e ideologica. Non c’è una fine dei giochi senza l’inizio della festa. E accantonando i giudizi di valore e gusto, parliamo di una festa sensazionale.

Si rende necessario fin da subito chiarire che chi scrive non è un particolare appassionato di cinecomics, quasi nullo consumatore di fumetti e pressoché ignorante dell’universo Marvel cartaceo. Della ventina di film che si sono susseguiti dal 2008 a oggi quelli che posso dire di aver realmente apprezzato si contano sulle dita di una mano. Eppure li ho visti tutti, dal primo all’ultimo, lasciando un bel gruzzoletto nelle casse dei multisala dove ne ho fruiti la maggior parte.

“E’ uscito Captain Marvel, andiamo a vederlo?” “Va bene dai, magari c’è anche qualche informazione interessante per Endgame”. Come me chissà quanti altri avranno ragionato in questi termini. Ecco, qui è racchiuso il cuore del discorso marveliano. Qui è stato scavato il solco attrazionale che ha fatto breccia negli appassionati del genere così come nei frequentatori di cinema più o meno occasionali. Brillanti menti si sono riunite intorno a un tavolo e hanno edificato una realtà finzionale che abbiamo assorbito nel nostro immaginario e imparato a considerare costante e intrecciata. Un flusso ininterrotto di personaggi e vicende che scorre per un minutaggio complessivo di oltre tremila minuti (“ti amo tremila”) che converge verso un’unica foce con la naturalezza di un fiume dall’acqua cristallina.

Avengers: Endgame si (in)carica dell’arduo compito di immettere questo flusso nello spazio cosmico con il bisogno di guardare avanti cosciente di aver dato tutto. Ci vogliono spalle grosse e coraggio da vendere per chiudere per sempre un ciclo così ricco, soprattutto facendolo immergendosi totalmente e con invidiabile serenità in un fanservice che come mai prima d’ora viene riconosciuto come necessario, assolutamente in linea con la costruzione di quel mondo che chi è entrato in sala per l’ennesima volta ha imparato a non contestare più o dal quale si è lasciato felicemente coinvolgere.

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Endgame ovviamente non è perfetto e tantomeno è un capolavoro, così come nel genere probabilmente nessuno lo sarà mai per ovvie esigenze che vanno incontro a mercato e aspettative. Non gode nemmeno di quella carica che elettrizzava Infinity War in ogni singolo frame e che finiva per folgorarti nel turbinio emotivo della conclusione. È un film di cui intuisci già prima della visione i percorsi e i probabili sbocchi narrativi, ma con il quale hai siglato un tacito accordo di mutuo rispetto nel momento in cui ti accomodi sulla poltrona. O forse anche prima, nel corso degli anni.

Se sei arrivato fino a qui in qualche modo, da qualche parte, di qualche cosa, sei un fan, lui lo sa e ci tiene a non deluderti. Ti tiene incollato lì per più di centottanta minuti, divertendo, emozionando e giocando magistralmente con quelle icone che nel tempo si sono modellate sul corpo non solo dei personaggi ma anche degli interpreti. Si poteva fare di più? Probabilmente sì. Che lo faccia meglio o peggio degli altri Avengers però non importa, non è quella la questione. Che lo riesca a fare per l’ennesima volta nel suo caratteristico stile di azione, battute e tragicità invece importa eccome, visto il richiamo all’attrazione che si rinnova all’uscita di ogni capitolo, vincendo puntualmente la sfida nonostante il brusio del “basta, non se ne può più”.

La sua personale perfezione Endgame la trova se inteso nell’unico modo nel quale un approccio al film trova il suo senso compiuto, quello del considerarlo come il tassello conclusivo che non può prescindere in nessun modo da tutte le precedenti pellicole Marvel che qui convergono, concretamente, sullo schermo. La fascinazione che decine di personaggi (chi più, chi molto meno) hanno suscitato negli anni trova una lineare chiusura, in un ricambio generazionale che si consuma con la spontaneità di un ingegno industriale che farà e dovrà fare scuola negli anni a venire. Considerare sempre e comunque il male il fare business con il cinema è indice di una mancata o quantomeno parziale comprensione del mezzo, di un infantile puntare i piedi soprattutto quando dietro quel lavoro c’è una invidiabile passione e dedizione al mestiere come quella dei Marvel Studios.

Si sente mormorare spesso che i cinecomics siano la rovina del Cinema nella sua forma più genuina, un’aberrazione cromatica senza arte frutto di chirurgica progettazione economica. Condivisibile o meno, a questi io rispondo che trecento persone in sala a godersi un film di tre ore, nato da un progetto simile, nel 2019 non riesco a trovarle da nessun’altra parte.  

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