#Venezia80: El Conde, la recensione del film di Pablo Larraín

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È certamente molte cose il protagonista di El Conde (trailer), nuovo film di Pablo Larraín in Concorso alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. È un vampiro, dalle fattezze bestiali, delineato ad immagine e somiglianza di una spettrale figura gotica. È al contempo una macchietta, un personaggio dell’assurdo, un vecchio decrepito abbandonato ai deliri della mente e al disfarsi della carne. Ma è, soprattutto, Augusto Pinochet, oscuro dittatore richiamato dalle pagine di storia ad imperversare tra le odierne città del Cile.

Perché il generale (Jaime Vadell), creatura pluricentenaria ancora in vita, si trova a vivere una crisi esistenziale: continuare a cibarsi di sangue e cuori pulsanti o lasciarsi infine morire? La metafora, limpida è forse fin troppo leggibile, vede quindi Pinochet ergersi a carnefice di una nazione, mostro che per decenni ha succhiato il sangue di un popolo. Quello letterale delle sue vittime, quello figurale dei crimini perpetrati dal suo regime; ma ancor più, con fosca ironia, il flusso vitale delle sue appropriazioni indebite ed evasioni fiscali. Perché il generale, in quanto soldato, può essere certo accusato di essere un assassino, ma mai un ladro.

Ed è quindi un personaggio tormentato, dicevamo, pressato da un lato dai figli inetti e “troppo umani”, interessati solo alla sua eredità, e dall’altro dalla moglie (Gloria Munchmeyer) che vorrebbe da lui il dono della vita eterna. In mezzo un maggiordomo-torturatore (Alfredo Castro), anch’egli divenuto vampiro, e una suora-esorcista-ninfetta (Paula Luchsinger), chiamata per scacciare il diavolo dal corpo del vecchio salvo poi far entrare – letteralmente – il diavolo in sé. Non senza, però, aver prima messo a nudo in tono sempre più assurdo la storia di una famiglia vissuta come parassita di un intero Stato, e ancor più l’incredibile impunità a cui ogni suo membro è andato incontro.

La regia di Larraín è ispirata, con una fotografia in bianco e nero che incornicia perfettamente l’oscillare dei registri, tra l’orrore, il ferino, il gotico più cupo, e il grottesco, l’humour nero, con a tratti alcune note da spettacolo circense. Non può che risultare evidente, inoltre, la mano della produzione targata Netflix dietro scelte come la pluralità di linguaggi presente nel film – con un narratore esterno in inglese ad avvolgere la predominanza dello spagnolo ed alcune incursioni del francese – quasi come a render manifesta la vocazione di un prodotto pensato per un pubblico internazionale.

È insomma molte cose El Conde, forse troppe. Racconto dell’orrore, per primo, con chiari richiami stilemici ai toni del gotico ottocentesco, specialmente nella figura del Dracula di Bram Stoker. Ma anche un’opera che strizza volontariamente l’occhio ad un archetipo contemporaneo come quello del supereroe, per quanto ammantato di oscurità e portatore di morte. Ed ecco allora che, nell’andare a caccia, il generale non manca di indossare la propria uniforme militare, con tanto di mantello e berretto. Un perfetto costume, insomma, che svolazza nelle riprese dall’alto di un angelo nefando, il quale atterra sulle sue vittime con la leggiadria di un perfetto Superman.

Quello di Larraín si presenta quasi come un esperimento, molto lontano dai toni intimistici – per quanto sempre rivolti a personaggi storici – con cui aveva ritratto le protagoniste dei suoi ultimi film. Ne risulta un’opera curiosa, che parte da un’idea di fondo accattivante per costruire un’allegoria grottesca, l’immagine volutamente trasfigurata di uomo che ancora oggi infesta la memoria di un paese. Il difetto di El Conde è allora forse quello di render troppo chiara e univoca questa lettura, senza lasciar spazio ad una polisemia autoriale, limitandosi un po’ a racchiudere tutto il significato in un unico sguardo.

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