#Venezia79: Vera, la recensione del film di Tizza Covi e Reiner Frimmel

Vera recensione

A volte prima di parlare occorre, per onestà intellettuale, ammettere la propria ignoranza. Ed è questo che mi accingo a fare nel trattare Vera, film di Tizza Covi e Rainer Frimmel presente nella sezione Orizzonti della 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Ebbene ammetto che, prima di entrare in sala, non sapevo assolutamente nulla di Vera Gemma, chi fosse nella vita reale né all’interno del film. Come dice il titolo, evidentemente tale conoscenza era (in teoria) un’informazione data per scontata nella narrazione e nella stessa realizzazione del film. Ma dietro Vera, opera dalla natura ibrida e curiosamente sfuggente, si nasconde più di una corrispondenza tra nome e personaggio.

Partiamo quindi dal sopperire a questa mia ignoranza. Parlare di Vera Gemma, protagonista del film e interprete di se stessa, è in una certa misura impossibile senza andare incontro all’impasse alla base della pellicola, ossia l’equazione tra l’identità della donna e il suo essere indiretta maschera di un altro volto. Perché Vera, attrice e donna, è figlia di Giuliano Gemma, famoso attore di spaghetti western tra gli anni Sessanta e Settanta. Il volto del padre sembra appunto essere calcato su quello di Vera (o meglio sul suo cognome), unico motivo di riconoscimento per il mondo che la circonda. E così la donna, nella realtà come nella finzione, è una persona/personaggio alla disperata ricerca di una propria identità, di un riconoscimento in quanto essere autonomo, una figlia perennemente seguita dall’ombra del padre. Una ricerca di individualità e di un ruolo di cui si fa metafora l’intreccio del film, nell’incontro tra la protagonista e un bambino proveniente da una famiglia di borgata.

Ed è proprio questo intreccio quasi indistinguibile, tra la finzione del film e la realtà del personaggio, a caratterizzare più di ogni altra cosa Vera. Perché se è vero che buona parte della storia si poggia su un intreccio inventato, è altrettanto evidente come durante tutto l’arco filmico Vera Gemma sia interprete soltanto di se stessa, in una compenetrazione tra persona e personaggio che a conti fatti si serve di un pretesto narrativo per diventare veicolo di espressione di una personalità. Come se il compito ultimo di questo film fosse, in fondo, il riconoscimento del suo essere primario, non dipendente da una seconda figura.

Appare evidente come il film intero miri a questo obiettivo, compresso in una autoreferenzialità che ne costituisce il suo stesso orizzonte. Lo stile registico è modellato in funzione del racconto semidocumentaristico, con un montaggio libero ricco di jump-cuts e una telecamera che per gran parte del film segue incessantemente la sua protagonista. Ma a questo punto iniziano i problemi. Problemi a dir la verità evidenti fin dalle prime battute di questo Vera, troppo impegnato a guardare la propria immagine riflessa per visualizzare lo specchio intero.

Perché se come abbiamo detto il film si costruisce in un intreccio tra realtà e finzione, è anche vero che la resa finale appare artefatta, referenziale, in modo da conferire anche al reale il sapore del finto. Come finta suona la recitazione, a tratti sinceramente non all’altezza di un palcoscenico come Venezia, fatta di inutili silenzi e battute pronunciate come se gli attori dimenticassero costantemente cosa dire. Una scelta probabilmente voluta da parte dei due registi, col fine, possiamo supporre, di avvicinare la resa filmica ad un linguaggio reale, da presa diretta. Una sorta di filosofia alla “buona la prima” che al contrario rischia pericolosamente di tendere ad un linguaggio da reality show. E non è un caso che Vera Gemma debba la sua notorietà, negli ultimi anni, proprio alla partecipazione a programmi televisivi.

In conclusione Vera si rivela un’opera chiusa nella propria autoreferenzialità, che ad un interessante spunto su una figlia alla ricerca della propria individualità affianca una componente finzionale banale, una storia trita che lascia lo spettatore a bocca asciutta. Se a questo aggiungiamo una recitazione stereotipata, incapace di rendere le emozioni richieste dall’intreccio, ne viene fuori una resa finale sicuramente al di sotto di quanto ci si poteva aspettare da un film della Mostra.

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