Sei donne per l’assassino: un bel film che non significa nulla

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Se Mario Bava avesse saputo che si celebrano gli anniversari dei suoi film avrebbe fatto solo una cosa: ridere. Come quando i critici (francesi) gli riferivano le loro interpretazioni, chiedendo conferme e spiegazioni. Come quando pensava allo sforzo neorealista di fare il cinema senza trucchi[1]. Una risata dissacrante di chi non prese mai sul serio il proprio cinema, consapevole che non fosse niente più di un gioco.

Tuttavia, la celebrazione è obbligatoria parlando di un film come Sei donne per l’assassino (trailer), che oggi compie sessant’anni. Il film-modello di registi come Dario Argento e Wes Craven (vedasi L’uccello dalle piume di cristallo o Nigthmare).Il fondatore di un nuovo genere. Il capostipite del thriller all’italiana. Un film che nel 1964 sorprese e destabilizzò il pubblico italiano che lo considerò inutilmente sadico. Non venne apprezzata l’insistenza sugli omicidi, violenti e crudeli in maniera macabramente creativa. L’interesse (deluso) di pubblico e critica era rivolto ad altro: alla solidità dell’intreccio, all’interiorità dei personaggi, alla filosofia espressa dall’opera. Niente di più ignorato da Bava, che invece pensava a questo film come un «film sui modi di uccidere»[2]. Con Sei donne per l’assassino, il regista spostò l’attenzione sul modo, sul “come”, costruendo un gioco filmico di pura forma.

Il gioco formale di Sei donne per l’assassino

Questo gioco ha due livelli. Il primo livello riguarda, appunto, ciò che racconta il film: in un atelier di alta moda iniziano una serie di omicidi ad opera di un assassino mascherato. Non va aggiunto altro. Si sa già chi morirà: le sei donne del titolo. L’interesse sta nel come verranno uccise, non nella scoperta dell’assassino. La rivelazione dell’intreccio misterioso passa in secondo piano. Diventa cornice. Un pretesto per mostrare il cuore del film: gli omicidi. Bava insiste nel mostrare non solo l’uccisione, ma l’intera dinamica della morte, cruenta e sadica, mai in maniera gratuita (il sangue compare solo nel penultimo omicidio). Il risultato è una sorprendente e innovativa estetizzazione della violenza (anticipando registi come Park Chan-Wook o Quentin Tarantino).

Il secondo livello di questo gioco riguarda, più tecnicamente, la forma del film. Bava, forte del suo passato da direttore della fotografia, sperimenta con luce e, soprattutto, colore: le inquadrature sono più colorate che illuminate, ma non c’è una motivazione precisa. Le immagini non naturalistiche sono solo una scelta formale, visto il contesto realistico in cui si svolge la vicenda. Queste soluzioni tecniche trasformano l’ambientazione in un delirio fantastico, gotico, orrorifico che domina la narrazione di una vicenda, nonostante tutto, plausibile.  L’«irrealismo cromatico»[3] di Sei donne per l’assassino non ha una ragione diegetica: in sostanza, non significa nulla. È solo bello. Come nota Roberto Curti, questo approccio barocco ed estetizzante nasconde «un crescente interesse in un mondo fatto di pure forme, sempre mutevoli, in cui il fattore-uomo è solo una ininfluente intrusione»[4].

Personaggi e storia: due pretesti

L’umanità, quindi, non ha importanza. Bava non caratterizza i personaggi, non scava nella loro psiche. L’investigatore veste lo stesso impermeabile dell’assassino, di cui non si conosce il volto. Assomiglia più a un manichino che a un essere umano. Anche le modelle si confondono con i manichini, entrambi strumenti da lavoro nell’ambiente dell’alta moda. Una sfilata babilonica di personaggi senza carattere, pronti a uccidere o essere uccisi nei modi più crudeli. Diventano i manichini di Bava che li sfrutta, li usa per mostrare altro – di certo non una loro trasformazione.

La soluzione del mistero è sorprendente non tanto per l’originalità narrativa, ma per il modo in cui si arriva alla verità. Bava dissemina una serie di inganni, false piste, indizi sbagliati, manipolando la narrazione per il solo gusto di farlo. Ci sono numerosi primi piani, dettagli, particolari su elementi che poi non ritornano. La storia è volutamente incoerente, consciamente contraddittoria. Nel finale si arriva alla risoluzione del mistero, si scoprono le motivazioni degli assassini. Tuttavia, il momento climatico viene dileguato rapidamente. Come l’arresto di Michel in Fino all’ultimo respiro o il destino di Anna ne L’avventura, l’attenzione non è posta sullo scioglimento dell’intreccio. L’azione ha il solo fine di portare qualcuno a morire, una volta annegato, una volta strangolato. Una volta con un long take, una volta con un montaggio frenetico.

La scena finale

Questo gioco filmico si manifesta massimamente nella scena finale. Le soluzioni registiche sono elaborate: Morlacchi (Cameron Mitchell) è seguito con un piano sequenza mentre si muove in una villa satura di colori, oggetti, figure inanimate per capire da dove vengono dei rumori sospetti. Guardando questo personaggio spaventato, l’interesse dello spettatore per la sua vita è minimo. Non importa che fine farà questo assassino, non per la sua spregevolezza morale, ma perché è un personaggio (volutamente) piatto. Stacco. Bava sceglie di far comparire Cristiana (Eva Bartok) da un punto totalmente opposto ai rumori che insospettivano Morlacchi: da cosa provenivano allora? Non importa. Ciò che conta è lo zoom sullo spaventoso volto martoriato di Cristiana, ritornata dall’aldilà. Queste soluzioni molto elaborate si rivelano non chiarificatrici. Inganni fuorvianti della macchina da presa. «Un atto gratuito, uno svolazzo prima che il racconto si decida ad arrancare verso la fine»[5]. Alla faccia della vocazione realistica del cinema.

La ciliegina sulla torta di questa presa in giro è l’inquadratura finale sulla cornetta dondolante. I Cahiers du cinéma interpretarono questa scelta come un riferimento alla targa dondolante delle prime inquadrature. Una chiusura ad anello di un’opera che racchiudeva tanti altri simboli. Attribuirono un significato a ciò che loro lessero come la visione dell’autore. La firma. Bava, invece, neanche si ricordava come aveva fatto finire Sei donne per l’assassino. Se sia vero o no non è importante. Il punto è che per il regista il cinema aveva un altro senso. La cornetta dondolante, gli zoom, i piani sequenza non avevano significato. Tutti questi trucchi sono belli, ma sono fini a loro stessi. Non simbolizzano nulla. Non significano nulla. Sono solo un gioco. Un gioco che «contiene già l’autocritica e la derisione per la propria assurdità»[6].

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Conclusioni: la postmodernità di Bava

In un periodo in cui il cinema cercava di affermarsi come arte, questo approccio giocoso, demistificante, postmoderno non poteva trovare molto seguito. In questo, però, risiedono l’innovazione e l’originalità di Bava, autore a tutti gli effetti: conosce il cinema in tutti i suoi aspetti, ha lavorato con stili altrui ed è arrivato a uno stile proprio (da studiare). Questo stile rende l’opera baviana, con Sei donne per l’assassino in prima fila,

«troppo autodistruttiva per farsi prendere sul serio, troppo complessa per essere etichettata come kitsch. Se da una parte Bava non si è mai allontanato dal cinema di genere, non ne ha certo rispettato le regole: […] se ha smontato certi suoi film con estro surrealista e consapevolezza degna delle avanguardie, non ha mai esibito intellettualismi o ammiccamenti»[7].

Celebrare Mario Bava significa celebrare un regista della postmodernità. Oltre le regole del classicismo. Oltre le rotture della modernità. Bava è postmoderno perché sapeva che l’arte non è nient’altro che un gioco. Ne accettava le contraddizioni con ironia. Costruiva un trucco senza illudersi. Faceva film belli senza dargli significato.


BIBLIOGRAFIA

Alberto Pezzotta, Mario Bava, Milano, Il Castoro, 1995

Luigi Cozzi, Mario Bava. I mille volti della paura, Roma, Profondo rosso, 2013

NOTE

[1] «Mi viene da ridere a pensare al neorealismo: bello sforzo. Vai per le strade e giri! Il cinema è la fucina del mago […] Almeno così è per me». Luigi Cozzi, Roma, Profondo rosso, 2013, p. 128

[2] Alberto Pezzotta, Mario Bava, Milano, Il Castoro, 1995, p. 46.

[3] Alberto Pezzotta, Mario Bava, Milano, Il Castoro, 1995, p. 47.

[4] Roberto Curti, Così imparano a fare i cattivi: il cinema di Mario Bava, in Mario Bava. I mille volti della paura, a cura di Luigi Cozzi, Roma, Profondo rosso, 2013, p. 89.

[5] Alberto Pezzotta, Mario Bava, Milano, Il Castoro, 1995, p. 100

[6] Alberto Pezzotta, Mario Bava, Milano, Il Castoro, 1995, p. 100

[7] Alberto Pezzotta, Mario Bava, Milano, Il Castoro, 1995, p.100

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