#RomaFF18: The Persian Version, la recensione del film di Maryam Keshavarz

Guardare dei film provenienti dall’Oriente dovrebbe essere prescritto dal medico almeno una volta al mese. I colori, la prospettiva, le storie, tutto è inebriante e, soprattutto, rinvigorente. A giocare questo ruolo da “elisir” alla Festa del Cinema di Roma è stato il lungometraggio The Persian Version (trailer), diretto dalla regista Maryam Keshavarz.

La storia racconta di una giovane iraniana-americana, Leila (Layla Mohammadi), che sogna di diventare la nuova Scorsese. La sua vita è caotica, divisa tra una famiglia grande quanto una squadra di pallavolo (oltre i genitori, una nonna e sette fratelli), il suo lavoro da filmmaker e una storia d’amore con una donna che l’ha lasciata. Leila dovrà far conciliare ogni pezzo e, soprattutto, riappacificarsi con la madre (Niousha Noor), una donna fortemente legata alle sue origini iraniane. Un sacco di ingredienti altamente caratterizzati che, però, si amalgamano alla perfezione grazie a una sceneggiatura brillante.

Il tratto distintivo di questo film, infatti, è il tono: una commedia drammatica raccontata in stile Fleabag, con la protagonista che guarda in macchina per commentare gli avvenimenti e i momenti surreali, caratteristici del realismo magico. Un’operazione difficile da realizzare se, oltre alla solida struttura narrativa, non ci fossero personaggi empatici e simpatici.

Così arriviamo al secondo punto forte di questo film: l’empatia. In pochissimi minuti lo spettatore riesce ad entrare nella pelle di Leila e vivere attraverso i suoi occhi le difficoltà di essere l’unica figlia della famiglia. Balliamo con lei quando, a sette anni, esporta illegalmente in Iran una musicassetta americana, immergendoci in una perfetta scena in stile Bollywood. Soffriamo quando, da adulta, viene cacciata dalla madre il giorno del Ringraziamento perché ha portato anche la fidanzata.

Ma gli occhi di Leila non sono gli unici che il pubblico si ritrova a condividere. Da circa metà film, infatti, ecco che la prospettiva cambia, in maniera fluida e per niente meccanica, e indossiamo i panni della madre iniziando a conoscere la “persian version” della storia. È il racconto di una donna tradita, fuggita dall’Iran per uno scandalo e che in America si è dovuta reinventare per sostenere una famiglia. Il racconto di chi, sopraffatto dalle responsabilità, ha cercato di trasmettere una forza incondizionata alla figlia, sperando per lei in un futuro meno logorante. Il racconto di chi ha cercato di fare del suo meglio ma, alla fine, ha rischiato di perdere per sempre quel rapporto unico madre-figlia.

Ecco che, senza accorgersene, lo spettatore si ritrova in lacrime. Non si capisce come e quando sia successo ma il film ha raggiunto una profondità che, inizialmente, non si poteva nemmeno sospettare. Dopo scene esilaranti, numeri musicali e avvenimenti fantastici, The Persian Version regala un’ultima grandissima emozione: la commozione davanti all’impotenza dell’essere umano. Il film, infatti, non è altro che un elogio alla semplicità degli uomini e delle donne che, sballottati tra il lavoro e la società, si ritrovano incapaci di concentrarsi sull’unica cosa che conta davvero: l’amore e la comprensione di chi ci sta accanto.

Ci sarebbero da dire tantissime altre cose su questi cento minuti così completi e totalizzanti. Come ultima cosa: per cercare di far percepire in minima parte cosa voglia dire ritrovarsi di fronte a questa storia, si potrebbe dire che The Persian Version è come una gita di famiglia da piccolo, divertente e spensierata, che, quando ricordi da adulto, ti invade con un senso di nostalgia e dolce tristezza.

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