Durante l’incontro ravvicinato di cui è stato protagonista, Marco Bellocchio ha presentato, nella sala della Festa del Cinema di Roma, tre sequenze della sua nuova serie, Esterno, notte, prossimamente sulla Rai.
Puoi parlare della visione che avevi del cinema italiano nel periodo in cui hai frequentato il Centro Sperimentale?
Era la fine degli anni ’50. Ero a Roma per frequentare il Centro Sperimentale prima come attore e poi come regista. Erano gli anni del La dolce vita, era diffuso un cinema di autore. C’erano due tendenze: la scuola francese della Nouvelle Vague con autori come Godard, e poi c’era il cinema italiano, ovvero la materia sulla quale mi sono formato. Uno dei film che io ricordo e conosco quasi inquadratura per inquadratura è Senso di Visconti, trovo che ci sia un’interessante combinazione con il cinema degli anni ’30 francese, con l’opera, con il teatro (un’altra sorgente di grande formazione per me). Quello era ancora un mondo democristiano, un mondo in cui, come diceva Monicelli, i registi andavano ancora in autobus. La satira e la commedia erano di composizione. Quando i pesi politici sono cambiati è chiaro che sia cambiato anche il cinema italiano. Ricordo di aver visto, in un cinema che ora non esiste più, Hiroshima Mon Amour, che per me è stato un qualcosa di profondamente nuovo.
In quegli anni hai trascorso un periodo a Londra. Il Free cinema inglese è stato importante per te?
Andai in Inghilterra dopo essermi diplomato al Centro Sperimentale. Il cinema inglese aveva e ha tutt’ora un suo registro di potente realismo, senza essere realista. In un film come The Loneliness of the Long Distance Runner , per esempio, entriamo in un ordine di rivelazione, il personaggio si ribella ad un certo tipo di violenza. Questa scelta, questa scena, è un’immagine che mi ha stupito e mi ha emozionato moltissimo.
Al Centro Sperimentale entri per studiare recitazione, dopo un anno passi a regia. Quali sono stati gli attori e le attrici che ti hanno fatto venire la passione per la recitazione?
Ci sono attori proibiti. Nel ’52, ’53 mi innamorai di Marlon Brando, lo volevo imitare. La mia carriera è sempre stata di grande azzardo ma anche di grande realismo. Non ho mai pensato di aspirare a grandi progetti, non ce ne erano di adatti. Quando, ventenne, sono venuto a Roma a studiare, avevo un po’ di provinciale diffidenza verso coloro che facevano parte della “cinquina d’oro”: Tognazzi, Gassman, Manfredi, Mastroianni, Sordi. Non capivo allora che si sarebbe potuto rivelare proficuo lavorare con loro. Sono riuscito a lavorare solo con Mastroianni e Volontè.
Puoi parlare del concetto di melodramma ne I pugni in tasca ma anche nelle tue opere in generale?
C’è stato un periodo in cui ripudiavo, ridicolizzavo il melodramma. Successivamente sono arrivato alla consapevolezza che la forma del melodramma è sempre stata molto formativa per me. Se penso a Vincere sono consapevole che sia un film in cui l’impeto del melodramma si sviluppa in una forma più seria, meno sarcastica. Con il passare del tempo ho preso sul serio l’opera lirico, riconoscendola come un oggetto di formazione molto profonda.
La città di Bobbio ha avuto un’influenza nella tua carriera e nella tua vita.
I pugni in tasca è stato girato lì, poi mi sono progressivamente allontanato da Bobbio, solo dopo la nascita di Francesca,mia figlia, sono tornato per fare dei piccoli film, fatti con poco, d’estate, con dei giovani. Marx può aspettare si compone tra Piacenza e Bobbio.
Raccontaci come è nata la tua collaborazione con Lou Castel, protagonista de I pugni in tasca.
É stata una collaborazione del tutto casuale. Quando si pensa ad un film, qualche volta, si ha la fortuna di sapere già chi lo interpreterà, ma spesso scrivi una storia e, poichè intimamente rinunci a te stesso, c’è il problema di individuare la persona giusta. Per I pugni in tasca abbiamo fatto qualche provino. Per caso, al Centro Sperimentale, mentre ero in sala mensa a mangiare ho visto un giovane. Mi sembrò un volto un po’ bergmaniano, così gli ho un provino e ho capito di aver trovato l’attore giusto. Lou Castel è stato un attore molto creativo in quel contesto, il suo essere così dentro il ruolo ha dato un grande apporto al film.
Parlaci del tuo rapporto con Marcello Mastroianni, che hai conosciuto sul set di Enrico IV.
Alcune volte degli attori hanno dei momenti di eclisse, e Mastroianni si trovano in un periodo del genere. Accettò il mio progetto proprio perchè non era un periodo particolarmente prolifico per lui. Era un uomo molto triste, ma impeccabile professionalmente. Aveva un grandissimo talento, non faceva alcuno sforzo a dare significato alle battute che pronunciava. Era un uomo riservato, dormiva poco e fumava ininterrottamente, però, al mattino era sempre impeccabile quando doveva lavorare. Alcuni attori acchiappano subito il personaggio e vanno avanti da soli, e questo è il caso di Mastroianni, non ho dovuto indirizzarlo. Ho avuto con lui un rapporto molto sincero, però, come spesso accade, finito il film è scomparso. É giusto che sia così, in generale per me è raro mantenere una relazione assidua con coloro con cui lavoro. Mastroianni è andato per la sua strada.
Parliamo di Vincere. Quello che fa effetto del film è vedere un Mussolino radicale.
Mi affascinava molto il percorso di Mussolini: parte da essere un ateo di estrema sinistra, arriva, con la guerra, prima ad essere interventista, poi a fondare il Partito Nazionale Fascista e, infine, sale al potere. Nel giro di 10 anni cambia radicalmente la sua posizione politica. Il film non si concentra tanto sulla complessità psicologica di Mussolini, quanto sul ritagliare il profilo di una donna, Ida Dalser, che non accetta di essere messa da parte da un uomo che pensa solo al potere.
Se non fossi stato incuriosito da tematiche di stampo religioso non avresti fatto un film come L’ora di religione, giusto?
Molti sacerdoti hanno trovato estremamente coinvolgente e interessante questo film. Alcuni di loro hanno visto nel grido del personaggio che bestemmia l’urlo di Cristo sulla croce. Nessuno ha la pretesa di chiedermi se io sia un credente. Viviamo nella libertà, quindi posso dire, senza nessuna supponenza, che «se hai la convinzione che io creda, credilo».
Esterno, notte, prossimamente trasmessa sulla Rai. É la prima volta che realizzi una serie tv, vero?
Sì, è la prima volta. Ho una certa età quindi avrei potuto fare la battuta: «Sì, è la prima e l’ultima » .É stata un’esperienza nuova, nata per caso, nel quarantesimo anniversario della morte di Aldo Moro. Lo spunto per me è stata una sua foto in una spiaggia di Torvaianica con la figlia e tanti bambini attorno. Pensai che sarebbe stato interessante ribaltare il campo rispetto a Buongiorno, notte (dove si era dentro la prigione), volevo guardare fuori, partire dalla strage e poi rimanere sui personaggi che vivono da esterni la prigionia di Moro.
Hai girato alcune scene a Cinecittà su dei set particolari, giusto?
Sì, abbiamo girato tre scene a Cinecittà: una nell’antica Roma, costruita per un prodotto cinematografico giapponese, poi un’altra in San Lorenzo fuori le Mura, costruito apposta per la serie, dato che non abbiamo avuto la disponibilità, da parte del vicariato, di poter girare nella location originale, infine abbiamo girato anche in un pezzo di San Pietro, che penso sia stato costruito per Habemus Papam di Nanni Moretti.
Parlaci dell’Italia prima e dopo il sequestro di Moro.
Tutta una classe politica e i partiti tradizionali sono andati in crisi. Tutti i partiti che conoscevo da bambino, protagonisti di dibattiti, di azioni di grande fermento, oggi sono inimmaginabili. Oggi meno del 50% degli italiani va a votare, ieri si arrivava al 90-95%. Quella di ieri era l’Italia dei partiti, i quali erano delle macchine dalla formidabile forza.