ROMAFF11 – MANCHESTER BY THE SEA (K. LONERGAN)

Esiste una Manchester che non si trova in Inghilterra, una Manchester bagnata dal mare, una Manchester che non ha due squadre di calcio incredibilmente forti a contendersi il tifo del pubblico. Questa Manchester, il cui nome completo è Manchester-by-the-Sea, è un comune degli Stati Uniti che si trova nella contea di Essex, nello stato del Massachusetts, ed è il luogo in cui è ambientato un film intitolato con il suo nome, Manchester by the Sea appunto, presentato alla Festa del Cinema di Roma.
Lee Chandler è un uomo che non ha più niente nella vita, la sua esistenza è stata distrutta da un evento sconvolgente che gli impedisce di vivere serenamente nel suo luogo d’origine. La morte del fratello maggiore Joe tuttavia lo costringe a tornare a Manchester-by-the-Sea, dove scopre inaspettatamente di essere stato nominato tutore di Patrick, il figlio di Joe. Tornare a casa significa per Lee fare i conti con il proprio passato, riallacciare i rapporti con l’ex moglie Randi, gestire un ragazzo adolescente alle prese con l’elaborazione di un lutto tanto grave.

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I trascorsi da sceneggiatore del regista Kenneth Lonergan emergono inequivocabilmente in questo film, che ha nella costruzione narrativa il suo più grande punto di forza. L’uso del flashback per ricostruire le motivazioni che hanno dato vita agli atteggiamenti di Lee è insistito, reiterato, carico di enfasi, ma non segue una linea temporale prefissata. È dettato piuttosto dall’andamento emotivo del protagonista: viene evocato dall’osservazione del territorio, dall’ascolto di una frase, da un evento di per sé ininfluente. Le linee temporali del presente e del passato si intrecciano dunque non tanto per esigenze di racconto o per un ritmo dettato dall’esterno, quanto per un ritmo tutto interno a Lee che deve bilanciare i propri doveri con lo straziante ricordo di ciò che è accaduto anni prima. Manchester by the Sea annulla dunque le dimensioni dello spazio e del tempo del mondo esterno, immortala il territorio in istantanee e panoramiche, preoccupandosi di portare sullo schermo il racconto emozionale dei luoghi e dei momenti dell’anima di Lee. Il risultato è dunque una straordinaria riflessione sulla natura del dolore e sull’impossibilità del protagonista di cogliere le opportunità di riplasmare la propria esistenza. È da queste mancate opportunità che emerge tutta l’incomunicabilità di Lee, che grazie all’interpretazione di Casey Affleck assurge a diventare un contemporaneo personaggio antonioniano, i cui silenzi risuonano ben più prepotentemente delle parole. La città diventa dunque metafora di questa incomunicabilità, teatro di scontro dei sentimenti di Lee con i personaggi e gli ambienti circostanti, espressione della natura eternamente vincente sull’uomo.

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Non c’è cura per Lee, non c’è rimedio per la sua alienazione perché, come dirà candidamente ad un nipote incredulo per il suo comportamento, «non riesco a superarlo». Eppure la vita richiede di essere vissuta, ed è proprio il nipote a ricordarglielo con la sua adolescenza, con il suo bisogno di sperimentare, di crescere, di amare ed essere amato. Costretto alla sopravvivenza per il benessere di Patrick, Lee non può far altro che provare a sopportare il peso dei suoi ricordi, in un processo che vede la sopportazione trasformarsi in umorismo nero, a tratti sadico, che consente un momentaneo allontanamento dei protagonisti dal buio delle loro esistenze. E chissà, forse, che proprio questo umorismo nato dalla spinta emotiva del nipote non rappresenti per Lee un nuovo punto di partenza, una condizione dell’anima da cui poter ricostruire, finalmente, la propria identità.

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