La cordigliera dei sogni, recensione del nuovo documentario di Patricio Guzmán

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«Il golpe ha vinto». C’è un senso di sconforto e di amarezza nelle parole di Jorge Baradit, scrittore cileno intervistato da Patricio Guzmán nel suo ultimo documentario, La cordigliera dei sogni (trailer), nelle sale italiane dal 10 giugno grazie a I Wonder Pictures. Quello stesso scrittore, poco dopo, non avrà più aggettivi per descrivere ciò che accadde in Cile dopo quel celebre 11 settembre 1973. Perché, tutto sommato, come potrebbe una persona provare a descrivere al meglio la condizione di un paese governato tutt’ora da coloro che tra gli anni ’70 e ’80 hanno perpetrato le peggiori sevizie verso un popolo indifeso? Come è possibile che vengano ancora negati i fatti, talvolta rintracciabili nelle pellicole dello stesso Guzmán, talvolta nei corpi che tutt’ora vengono ritrovati nel deserto di Atacama o nelle acque del pacifico?

La dittatura di Pinochet è stato un periodo buio della storia cilena, una crepa profonda, simile a quelle che si scorgono sulle pareti delle Ande (catena montuosa che costituisce l’80% del territorio cileno). Quello scenario naturale che nei documentari di Guzmán è sempre stato presente, da La battaglia del Cile a La memoria dell’acqua, testimoniava e raccoglieva ciò che ai suoi piedi si stava consumando (“L’eco del golpe è ancora udibile tra le montagne”, dirà nel documentario Guzmán). La missione allora per il regista cileno è quella di ripartire da questo paesaggio (che tanto gli ricorda la sua infanzia) per comprendere il Cile contemporaneo, per tentare di ritornare ancora una volta al cuore delle cose, colmare quel vuoto di memoria durato sedici anni.

Nelle battute iniziali del documentario, dove simpaticamente cadiamo nel tranello dell’illusione cinematografica (il dipinto delle Ande che, per la distanza da cui viene inquadrato, ci appare come una fotografia), viene ribadito come sia necessario per i cileni riscoprire o approfondire quel peculiare paesaggio che sembra circondare il paese e isolarlo dal resto del mondo. C’è bisogno di ricordare e tramandare: e cosa se non il mezzo cinematografico, quel minimo stacco di montaggio che crea continuità e colma distanze, potrebbe aiutarci?

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Guzmán ci chiarisce tutto subito: «Non mi sento più cileno»; queste immagini allora, questi rimandi tra il territorio del suo paese natale e le immagini del suo popolo, in un percorso partito da Nostalgia della luce nel 2010 e proseguito con La memoria dell’acqua nel 2015 (conosciuto come “la trilogia del territorio”), sono testimonianza di un racconto necessario in primis al suo narratore. La sua inconfondibile voice-over in questo caso è l’elemento chiave che unisce le immagini, che “salda” questi collegamenti, che passano anche attraverso nuove e preziose interviste/testimonianze.

Mai come in questo caso il suo cinema è riuscito a dispiegarsi in tutte le sue potenzialità. Tanto quanto la missione di una delle figure chiave del documentario: il regista Pablo Salas. Il documentarista è un po’ l’opposto di Guzmán: egli, quando quest’ultimo fuggì in Francia (dove tutt’ora risiede) dopo il periodo di fermo post-golpe, anche durante il periodo di Pinochet ha continuato a girare, ha rischiato la sua vita pur di salvare su pellicola ciò che stava accadendo. Nonostante sia ancora inedita presso il grande pubblico, l’opera di Salas è un archivio fondamentale per la “memoria del futuro”, come sostiene Guzmán, la chiave per quelle generazioni che verranno e potranno sperare nel cambiamento, rivolgendo uno sguardo al passato.

Terminata la visione non resta che una profonda e sincera commozione, un’ammirazione verso un’opera (nella sua interezza, compresa quella di cineasti come Salas) che, nell’impossibilità di poter giungere in un futuro ad una conclusione, affascina per l’aver scolpito su pellicola la verità, per l’aver restituito dignità ad un popolo come quello cileno. Forse anche noi siamo senza parole.

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