Moneyball – L’arte di vincere e la filosofia del loser

Cosa c’è di più americano di un guantone, una palla, una mazza, uno stadio e uno spogliatoio? Forse solo Brad Pitt a capo di tutto ciò. Moneyball – L’arte di vincere (trailer) compie dieci anni: una storia un po’ vera, un po’ romanzata, un po’ celata, come tutte le grandi storie, che trasuda americanità da tutti i pori. Quella americanità che il popolo d’oltreoceano stesso vorrebbe fosse norma più che eccezione.

Quella che abbiamo davanti, nel film di Bennett Miller, non è però un’America fatta di patriottismi, ne è il dietro le quinte: strategie di marketing, più ingegno che azione, un sistema vecchio di 150 anni che, proprio per questo, è necessario cambi. Promotore dell’evoluzione si fa Billy Beane (Brad Pitt), ex giocatore di baseball (piuttosto fallimentare) e general manager dell’Oakland Athletics, il loser di questa storia (e quindi anche il protagonista).

Conoscendo la cinematografia americana, di primo acchitto può quasi sembrare paradossale credere possibile associare il loser, il perdente, allo spirito americano, quando essa stessa si fa promotrice dell’esatto opposto. Eppure ciò che un film narra è un percorso e a compierlo è sempre un prescelto. Nello sconfinato spazio che è l’immaginario statunitense, solo i più intraprendenti e coraggiosi avranno la possibilità di esplorarlo: il prescelto (in passato prescelto da Dio, ora più che altro dal destino) è un outcast, è segnato, ha la potenzialità per ergersi su tutti ma non ne ha ancora i mezzi.

Billy Beane è tutto ciò: era stato riconosciuto come la più grande promessa del baseball, ma nel ruolo sbagliato. Perché il suo destino era sempre stato quello e per compierlo ha preso la via più lunga, certamente la più sofferta, ma che lo ha portato a rivoluzionare il più famoso gioco americano. Moneyball narra la storia di una rivincita, una rinascita: un perdente diventa eroe, presta le sue abilità e quelle del suo fidato collaboratore, Peter Brand (Jonah Hill), e una volta compiuto il suo lavoro, torna alla base, a casa.

È proprio questo tornare alla base che rende il baseball il gioco più americano di tutti: «Il baseball è uno sport veramente fuori dall’ordinario, l’unico con l’uso della palla che segna punti con il ritorno alla base di partenza. […] è possibile che l’America rappresenti qui se stessa attraverso uno degli atti simbolici più connaturati alla sua essenza. Si tratterebbe di un basilare rituale di “riconsacrazione” dello spazio violato»[1].

Moneyball e la filosofia del loser DassCinemag

Nell’immaginario americano, quando i padri pellegrini sono giunti su una terra il cui orizzonte era quasi impercettibile, hanno avuto davanti a loro due scelte: uscire ed esplorare, oppure stare a casa, in luoghi ormai noti e sicuri. Quindi i più intraprendenti erano coloro che, costretti ad uscire di casa (e ad essere costretto era solitamente il più insospettabile), si forzavano nel ruolo di esploratori e da questi viaggi tornavano vittoriosi.

Con Moneyball, la vicenda di Billy Beane, almeno nella sua forma cinematografica, si inscrive perfettamente in questa formula: il perdente, ma prescelto, è l’unico a vedere ciò di cui la squadra ha davvero bisogno e cosa bisogna ottenere per migliorare. Accoglie quindi l’aiuto di Peter, un giovanissimo stagista da poco uscito da Yale ed insieme, grazie alla statistica e alla matematica, formano la squadra meno ideale di sempre, composta, guarda caso, da altrettanti losers in cui nessuno aveva creduto prima.

Solo quando forzeranno la mano su Art Howe (Philip Seymour Hoffman), il restio allenatore che vede una rivoluzione inutile e senza futuro nell’operato di Billy e Pete (ricordandoci che i migliori nemici dei perdenti saranno sempre i gatekeepers), grazie ad un agguerrito scambio di figurine in carne ed ossa, la formula magica potrà avere pienamente effetto. Gli Oakland Athletics fanno quindi l’impossibile, perché un leader che aveva in sé la potenzialità del successo ha abbandonato i dettami di un gioco ingiusto, basato su un modo di pensare medievale, come lo definisce Peter.

Andare contro il baseball e le sue norme è un po’ come andare contro l’America stessa ed è forse per questo che i film sul baseball raccontano l’America più di altri: la stanza in cui avvengono le decisioni, dove vengono formulate le strategie che dovrebbero dar vita alla squadra perfetta, è popolata da uomini anziani, con i capelli tinti o gli apparecchi acustici, troppo impegnati a fare le cose come si sono sempre fatte, escludendo atleti per becere motivazioni, per poter ascoltare le reali esigenze del gioco.  

Ciò che questa mirabolante squadra non riuscirà a fare sarà superare quello stesso ostacolo da cui si era partiti l’anno precedente: la partita delle eliminazioni per le World Series. Ed ecco che, apparentemente, tutto il lavoro fatto non ha più significato, perché Billy sa bene che il baseball ha la memoria corta. Eppure, il battitore ha mandato la palla più in là del previsto.

Il loser statunitense vede la sua origine nella matrice puritana della società americana: i balbuzienti, i lebbrosi, i poveri e, nella società contemporanea, i nerd, gli esclusi, i diversi, gli orfani. Essi hanno fra le loro cerchie quella persona che sarà poi la scintilla di una rivoluzione, quella persona comune (ma non troppo) che potrà essere d’esempio per tutti gli altri. Bill balbettava ma con i suoi amici ha ucciso It. Indiana sapeva contare in greco ma ha trovato il sacro Graal. Peter e Bruce erano orfani ma un potere più grande li ha scelti per proteggere le loro città.

«Many are called, few are chosen» è ciò che dice un telecronista commentando una partita di Billy Beane: chiamato a diventare uno dei grandi del baseball americano, era in realtà stato scelto dal destino per diventare colui che lo avrebbe cambiato per sempre.


[1] E. Ilardi, F. Tarzia, Spazi (S)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano, La Talpa, Castel San Pietro Romano 2015, p. 143.

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