Missing, la recensione: la galassia multiforme di uno schermo

Missing

Quella di Missing (trailer) è una storia che, a metterla per iscritto, può sembrare il più comune dei thriller. June (Storm Reid) è una diciottenne che vive con la madre Grace (Nia Long) nel ricordo del padre scomparso quando era piccola. Insofferente verso le attenzioni del genitore, la ragazza accoglie come uno scampolo di libertà la partenza della madre per un weekend con il suo nuovo compagno Kevin (Ken Leung). Ma quando dopo pochi giorni si accorge che i due sono scomparsi nel nulla, June sarà costretta a ricostruirne le tracce prima che sia troppo tardi.

Una storia che risuona in modo simile a tante già sentite. Ma Missing non è certo un film da “ascoltare”, quanto semmai da “guardare”. La particolarità del film sta infatti nel regime, o meglio nei diversi regimi di visione che adotta per la propria rappresentazione. In tal senso le sue prime immagini sono emblematiche: assistiamo ad una scena costruita con uno stile del tutto televisuale, quasi come fosse l’intro di un programma tv. Dopo qualche secondo l’inquadratura si allarga, rivelando lo schermo di un computer e la finestra-video al suo interno. Insomma ci rivela una finzione, più precisamente una mediazione. E questa dinamica, questo meccanismo di ribaltamento tra visione immediata e realtà mediata, si rivela fondamentale per la comprensione del film.

Perché l’intero Missing ha luogo, di fatto, attraverso uno schermo. Che non è il grande schermo del cinema – da cui certo si fruisce la pellicola – bensì quello di computer, telefoni, videocamere di sorveglianza o addirittura smartwatch di cui il film assume le fattezze, restituendone ogni volta gli indicatori visuali (formato e interfaccia). Sono questi i dispositivi con cui interagisce la protagonista June, vere e proprie estensioni delle sue capacità (come dicevamo all’inizio) da sfruttare per i propri scopi. I dispositivi tecnologici e la virtualità della rete si configurano come gli strumenti che la ragazza ha a disposizione nella ricerca della madre scomparsa. Un’indagine in cui si acuisce lo scarto tra la giovane, pienamente integrata nella “galassia” reticolare dei nuovi media, e il mondo degli adulti e della polizia, rallentato da forme di conoscenza e di ricerca tradizionali.

Dal punto di vista della sperimentazione visiva, Missing si colloca in un filone del cinema contemporaneo incentrato a scardinare il tradizionale regime di visione della narrazione per immagini, assorbendo nel corpo della forma-cinema le nuove forme delle tecnologie video attuali. Un percorso già iniziato da Searching (2018), a cui Missing si collega come spin-off stand-alone. Se nel primo caso era un padre ad indagare sulla scomparsa della figlia attraverso il suo laptop, stavolta le premesse sono ribaltate, con un deciso aumento di complessità nell’unione dei vari frammenti schermici che compongono la messinscena. Ne risulta un essere fortemente ibrido, mutevole, sempre pronto a cambiare le modalità scopiche presentate allo spettatore.

Un po’ quello che succede ai personaggi della storia, in cui il concetto di identità assume il ruolo centrale. Nei molteplici colpi di scena, rivolgimenti e cambi di direzione che la trama presenta, i più drastici sono quelli che ruotano intorno alla natura delle sue componenti. L’enigma principale al centro dell’indagine di Missing non è realmente quello di trovare delle persone scomparse, bensì quello di ricostruirne la reale identità. Identità che, per ognuno dei personaggi, è coperta non a caso da maschere: quelle costruite dai social network, dai profili e dai nomi assunti sulla rete, che costituiscono nuove “mediazioni” al pari degli schermi che le mostrano.

Il conflitto alla base del film è in fondo quello sperimentato dai nativi digitali nei confronti delle generazioni precedenti. Attraverso la figura della sua protagonista, Missing mette davanti allo spettatore un soggetto del tutto padrone delle funzioni implementate dalle tecnologie mediatiche e perfettamente in grado di navigare lo spazio virtuale da esse creato. La giovane June è un tutt’uno con gli schermi con cui si interfaccia, rapida nell’aprire collegamenti, reattiva nello stabilire connessioni. Allo stesso tempo il suo è un utilizzo critico di tali mezzi, dal momento che il suo compito è letteralmente quello di “scavare” sotto la superficie dello schermo, svelare la finzione/mediazione dell’intrigo per trovare i pezzi mancanti (e ristabilirne infine l’identità, la loro reale forma).

I registi Nick Johnson e Will Merrick hanno così configurato una “narrazione digitale”, emblema di un regime di visione multiforme (quello delle interfacce mediali) contrapposto all’unicità dell’inquadramento cinematografico. Il risultato è un thriller veloce nei ritmi, a tratti frenetico, che spazializza la virtualità degli schermi come una coinvolgente myse-en-abyme. Un titolo, Missing, che in definitiva si adegua all’esperienza di fruizione mediale tipica delle nuove generazioni, ma che forse, sintomaticamente, sfuggirà alla sensibilità di un pubblico più adulto.

Missing è al cinema dal 9 marzo.

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