La tigre bianca, la recensione del film di Ramin Bahrani su Netflix

La tigre bianca - locandina

Disponibile da poche settimane sul colosso dello streaming americano, La tigre bianca (trailer) diretto e sceneggiato da Ramin Bahrani, è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo vincitore del premio Booker Prize nel 2008 dell’autore indiano Aravind Adiga.

La vicenda narrata è alquanto lineare: Balram Halwai (Adarsh Gourav), bambino dalle grandi potenzialità intellettive purtroppo stroncate prematuramente per ragioni economiche, nasce e cresce in un poverissimo villaggio appartenente alla “bassa” India, nei panni di un servitore per ricchi padroni, tra i quali Ashok (Rajkumar Rao) e sua moglia Pinky (Pryianka Chopra). Nella condizione di servo fedelissimo nei confronti dei padroni tuttavia, Balram vedrà nascere in sé una irrefrenabile voglia di riscatto sociale che più che assumere i toni di una rivalsa politica egualitaria, si colorerà di pericolo e cupezza.

La pellicola comincia con un Balram profondamente diverso rispetto a quello che vedremo per tutto il resto del film, un Balram ricco e potente in tentativi di trattativa con il primo ministro cinese Wen Jiabo, in netta contrapposizione con il suo background passato mangiato dalla povertà – che  tuttavia il protagonista porterà con sé per un’intera esistenza – per poi fare un salto temporale all’inizio della storia e procedere per ordine. Ecco che sin dall’inizio i punti cardine su cui l’intera narrazione andrà a poggiarsi si presentano alquanto prevedibili allo spettatore: un uomo adesso ricco proveniente da un contesto sociale piuttosto basso? Ne è il protagonista. Riscatto sociale? Ne è la forza motrice dell’intera vicenda. Vissuto travagliato? Ne sono le conseguenze di una vita passata come subordinato a gente potente. I presupposti per fare del film in esame un moderno bildungsroman ci sono tutti, e l’idea è giustissima trattandosi di un adattamento, ma se l’intenzione era quella di restituire una condizione collettiva di un India travagliata, l’intento è forse stato raggiunto solo nei temi e poco nei modi.

la tigre bianca recensione

Quello che manca, e che invece sarebbe stato interessante poter vedere, è un punto di vista sull’India de La tigre bianca che sia effettivamente interno alla stessa India. Peculiare, invece, dall’inizio alla fine del prodotto, è un continuo richiamo all’Occidente e più nello specifico un dialogo costante tra India e USA (fattore che, invero, è imprescindibile essendo questa una co-produzione tra i due Paesi). Ed è proprio nell’ottica tecnica e direttiva che emerge il “ponte verso l’America”: nella struttura della narrazione, in una sceneggiatura tanto hollywoodiana raccontata per intero in prima persona da un protagonista all’apice del successo a via di flashback sul proprio devastante passato, in un montaggio frenetico, rotture della quarta parete, insomma, quanto di più lontano c’è dalla tipica – probabilmente erronea – concezione di “orientale”. Se però nelle modalità è mancato l’elemento tecnico dell’esotismo, il dialogo con l’Occidente ha sicuramente permesso a Bahrani di esplorare in maniera “convenzionale” e piuttosto riuscita l’indagine psicologica generale alle spalle della vicenda in sé e a cui si presta benissimo la costruzione dei personaggi. Ecco che l’ipocrisia di Ashok in quanto indiano occidentalizzato, ma anche il servilismo di Balram e chi come lui è cresciuto sotto l’imposizione inconsapevole di quella mentalità, risultano esplorati a 360° e pertanto pienamente concreti.

Piccolo scivolone su un piano tecnico è probabilmente la tempistica, che la penna dello stesso Bahrani non si può dire abbia sfruttato nel migliore dei modi: in maniera generica La tigre bianca è raccontato in maniera piuttosto dilatata almeno per la prima ora e mezza dell’intero minutaggio, con un focus particolare sul Balram servo; eccessivamente accelerata risulta la conversione psicologica interna al protagonista e il successivo sviluppo del Balram padrone, la cui dinamica avrebbe richiesto una maggiore attenzione a livello tempistico e di scrittura.

In definitiva, La tigre bianca è un’esperienza estetica piuttosto valida, capace di toccare punti di riflessione culturale anche molto alti, se si hanno gli strumenti per coglierli, è un’indagine psicologica dell’uomo tutto, orientale o occidentale che sia, è un approfondimento sulle dinamiche psichiche e relazionali che si instaurano tra vittima e carnefice e sulla sottile linea di demarcazione tra i due, costantemente minacciati da un pericoloso rovesciamento dei ruoli. D’altronde, lo stesso Balram lo dice: “un uomo povero ha due modi per diventare ricco: o con la politica, o con il sangue.”

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