La quattordicesima domenica del tempo ordinario, la recensione: storia di un uomo irrisolto

La Bologna degli anni ‘70 fa da sfondo ad una storia che inizia come una fiaba. Protagonista della scena è un chiosco di gelati, un luogo, per alcuni versi magico, che ha il potere di trasformare i sogni in realtà. Qui, Marzio per la prima volta incontra Sandra, che definisce “la donna più bella di Bologna”, colei che finirà per sposare. È la storia di un matrimonio tormentato, di un duo musicale che fatica a sfondare, un racconto sui sogni che, se non li annaffi, finiscono per appassire e farti appassire, la cronaca di un uomo che raccoglie fallimenti ma non cede neanche quando gli tremano le gambe. La quattordicesima domenica del tempo ordinario (trailer) è un film scritto e diretto da Pupi Avati.

Il film procede avanti ed indietro nel tempo. Vediamo Marzio e Sandra, interpretati da Lodo Guenzi e Camilla Ciraolo, appena sposati, all’apice della felicità e poi assistiamo alla loro serenità che pian piano sbiadisce, per lasciare il posto a due protagonisti più maturi, più consapevoli e sicuramente più disillusi (a cui regalano il volto Gabriele Lavia ed Edwige Fenech). La canzone che Marzio e Samuele (Nick Russo/Massimo Lopez) hanno scritto per il loro duo musicale recita: “Le cose belle son volate via”, quasi con fare profetico, quasi a predire quello che da lì a breve si rivelerà essere il destino dei personaggi, in particolar modo quello del protagonista. Marzio è un eterno sognatore; per tutto l’arco del film assistiamo alla sua corsa affannata verso il successo, verso l’arte che lo illumina: la musica. Lo vediamo sbagliare, continuamente, ripetutamente, con sua moglie, con il suo amico, con sé stesso e non imparare dai suoi errori.

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Sandra, con il suo coraggio nell’opporsi alla quasi imposizione sociale di quegli anni di mettere al mondo dei bambini, con la sua spinta ad avere una carriera ed una indipendenza economica che siano solo sue, è il ritratto di una donna fuori dal comune, che, ad inizio film, sembra quasi usare gli uomini per i suoi tornaconti personali. Nonostante i personaggi presentino degli spunti interessanti, appaiono a volte un po’ troppo statici, non vediamo un chiaro processo di evoluzione o involuzione degli stessi. Sandra anni dopo definisce Marzio “un uomo cambiato”, ma Marzio non cambia. A fine film si rivela essere quello che è sempre stato fin dall’inizio: così spaventato dall’idea di perdere la moglie da essere terribilmente e spaventosamente possessivo nei suoi confronti. Non è così semplice riconoscersi nei protagonisti, proprio perché non sembrano essere influenzati dai cambiamenti a cui la vita li sottopone. Ad amplificare questa sensazione di straniamento è anche una sceneggiatura a tratti didascalica che spesso mira a sottolineare eccessivamente alcuni passaggi del film.

Pupi Avati ha definito La quattordicesima domenica del tempo ordinario come il più autobiografico tra i suoi film, il più vero, sottolineando quanto ci sia di suo, delle sue persone, della sua vita qui dentro. È innegabile che si tratti di un film di un grande Maestro del cinema. L’abilità, l’esperienza di Avati, nonché la sua capacità di sapersi muovere a trecentosessanta gradi, si riscontrano in vari aspetti della sua opera: nelle parole (da lui scritte) del brano che fa da colonna sonora al film, nel lavoro che, evidentemente, ha saputo fare nella direzione degli attori, nella percettibilissima sensazione di nostalgia che alla fine i suoi film sanno sempre regalare.

È un film che presenta qualche difetto, ma è anche un film in cui è chiaro che ci sia parte del cuore del regista, il che lo rende un prodotto che non potrà mai essere “disinteressato”. Ci sono dentro le fragilità, i tormenti, la disperazione di un uomo che non sa che parte andare e si lascia guidare dallo scorrere del tempo. Il film, anche con le sue sbavature (e forse grazie ad esse), si delinea come un flusso sinceramente vero.

Dal 4 maggio al cinema.

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