La firma di un grande autore come Martin Scorsese. Una leggendaria coppia di interpreti come Leonardo Di Caprio e Robert De Niro. Un budget mastodontico (ma lo è davvero per gli standard odierni?) di 200 milioni di dollari. Tre anni dopo The Irishman, il regista italo-americano torna nelle sale con un kolossal annunciato, nonostante dopo la visione si abbia l’impressione di aver assistito più a una grande prova di forza che a un nuovo capolavoro. Killers of the Flower Moon (trailer), tratto dal romanzo saggistico di David Grann Gli assassini della terra rossa, racconta la storia vera dei massacri dei nativi americani Osage in Oklahoma dopo la Grande Guerra, a seguito della scoperta nei loro territori di ricchi giacimenti petroliferi. In un film di quasi tre ore e mezzo, durata strenuamente difesa dal regista, la coppia Di Caprio-De Niro ovviamente buca lo schermo, lasciando la sensazione di aver visto il meglio di due generazioni contendersi la scena, in un incontro-scontro che ha dell’epico. Scorsese riunisce due dei suoi feticci, che egli stesso ha contribuito a consegnare alla Storia del Cinema, per raccontare ancora il lato oscuro dell’identità americana, sviscerando gli inganni e la violenza che hanno dato vita alla sua grande potenza.
Il personaggio di De Niro, il “Re” William Hale, è un perfido e opportunista latifondista che non si fa scrupoli a far sterminare il popolo Osage, mostrandosi pubblicamente come un benefattore. Ernest Burkhart, interpretato da Di Caprio, suo nipote e reduce di guerra, è invece un personaggio più debole e inetto, figlio dell’incertezza di inizio Novecento e del trauma della Prima Guerra Mondiale. In un certo senso, è il tipico antieroe scorsesiano in crisi, fragile e impotente, che si fa abbindolare dall’evanescente promessa di successo e facile guadagno, venendo risucchiato in una crescente spirale di dissoluzione e peccato. Leonardo Di Caprio, scegliendo un ruolo così poco accomodante, lavora espressivamente sul piano vocale e fisiognomico, in particolar modo nella prima parte del film, accentuando il carattere da loser del suo personaggio: stavolta la recitazione è meno sottile e più caricata rispetto al solito, ma riesce comunque ad essere credibile inserendosi all’interno di un melodramma fortemente classico.
Tra questi due grandi, però, si destreggia con sorprendente classe Lily Gladstone, che, interpreta la nativa Osage Mollie Burkhart, moglie di Ernest. È lei il punto di volta per leggere un aggiornamento nella poetica del regista: l’importanza che le viene data, infatti, offre una sorta di controcampo all’immoralità dei tipici antieroi gangster scorsesiani, proponendo un punto di vista nuovo e più speranzoso. Il regista, stavolta, sembra volersi aprire di più alla prospettiva degli sconfitti, dei vinti, restituendo dignità a un popolo ingiustamente caduto nell’oblio per molto tempo. Rispetto alla sceneggiatura iniziale, infatti, che prevedeva una maggior presenza nella storia dell’FBI e del punto di vista dei bianchi, Scorsese ha riscritto la storia con Eric Roth dedicando ampia parte del racconto a tradizioni, credenze e aspetti antropologici degli Osage (anche grazie alla spinta di Di Caprio), tentando di descrivere questo popolo nella maniera più autentica possibile.
Complessivamente, tuttavia, il ritmo del film sembra piuttosto incostante: a sequenze più incalzanti come quelle iniziali, che proiettano con entusiasmo all’interno della storia, si alternano altre decisamente più frenate, che rischiano di destabilizzare la visione. Anche la lunghezza sembra a conti fatti eccessiva, nonostante l’ampio respiro che si tenta di dare al racconto. Probabilmente al film serve solo del tempo per essere digerito e apprezzato completamente, ma per ora ci sentiamo di dire che Killers of the Flower Moon non sia il miglior Scorsese, né quello più incisivo, nonostante a ben ottantuno anni tenti ancora di mettersi in gioco, riflettendo criticamente sul suo cinema e sul suo paese.
In sala dal 19 ottobre.