Il capofamiglia, recensione: il dramma materiale

Il Capofamiglia, recensione film di Omar El Zohairy Dasscinemag

Il capofamiglia (trailer), film scritto e diretto da Omar El Zohairy, ambientato in Egitto, è un urlo d’aiuto disperato. Il dramma che affligge la famiglia distrugge l’equilibrio precario in cui verteva la loro vita, altrettanto in bilico. Il film ha vinto il premio come Miglior film alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes nel 2021 e il Gran premio della giuria al Torino Film Festival.

La storia della famiglia è dedita al sacrificio perenne: la vita di ogni suo componente è ipotecata al lavoro, unica ragione di vita, e di sopravvivenza. I primi piani e piani americani sono molto usati, ma si evita di porre l’attenzione sui volti dei personaggi; la macchina da presa riprende solo le azioni “materiali” e “utili” a scampare la morte (come le scene di scambi di soldi, di cibo, atti di indossare le scarpe da lavoro). Questo espediente rende ancora più chiara la condizione di alienazione al lavoro e disperazione che vive l’intera famiglia. Dall’inizio della trama, il lavoro manuale di entrambi i genitori li rende inespressivi e apatici di fronte a qualsiasi situazione. I figli tentano naturalmente di esprimersi, ma la risposta che spetta loro è un eloquente silenzio.

Per contrasto, gli eventi emozionalmente coinvolgenti sono raccontati con l’uso di long shot: ne sono esempio la scena della festa fino ai riti per tentare di far tornare umano il corpo del padre. In questo modo, si percepisce lo straniamento dalla propria vita emozionale. La loro sorte è profondamente cambiata in un momento di grande spensieratezza: la festa di compleanno di uno dei due figli. Un mago tenta un trucco magico ma qualcosa va storto: il padre di famiglia viene “trasformato” in un pollo, o almeno questo è quello che vuole farci credere la successione dei fatti. Inizia così la metamorfosi di ogni componente della famiglia, ormai segnata in modo indelebile da questa perdita importante.

Il Capofamiglia, recensione film di Omar El Zohairy Dasscinemag

La madre (Demyana Nassar) rinnega la sua condizione per aiutare, silenziosamente, la sua famiglia: prende la situazione in mano e tenta disperatamente tutte le strade possibili pur di far vivere al meglio i suoi bambini, anche se deve farli lavorare contro ogni legge. I bambini si estraniano dalla loro vita guardando in modo compulsivo la televisione, mentre la madre combatte per una vita fuori dai canoni del sistema patriarcale in cui era immersa e che non le offriva nessun tipo di comprensione.

La trama è colma di contrasti sonori e visivi che definiscono l’inizio e la fine di un grande cambiamento di vita: l’urlo e il buio fanno spazio ai colori e alla musica di una rinascita personale. Per nascere bisogna morire, anche a costo di tagliare completamente con il proprio passato. Questa pellicola racconta l’intensità dell’esistenza in condizioni di povertà usando la stessa crudezza con cui viene vissuta in prima persona. Il mistero, però, rimane costante durante tutte le scene; il codice con cui comunicano i personaggi è ineffabile a chi non si trova nelle loro stesse condizioni. Le loro espressioni infondono comunque molta emozione negli spettatori e spettatrici. 

Si può notare quanto il titolo sia in divergenza con la trama vera e propria; questa soluzione è ironica e allo stesso tempo realista, proprio come la trama, ed è la manifestazione di un cambiamento che parte dalla forza di una sola persona. Questa persona, però, è quella che ci aspetteremmo, oppure no?

Il capofamiglia è al cinema dal 16 marzo.

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