Black Phone, la recensione: un horror che soffia ma non graffia

Black Phone

Un thriller con qualche sfumatura horror qua e là, a metà strada tra Split e Amabili resti, che ci racconta una storia di abusi. Ecco come si potrebbe introdurre il nuovo film di Scott Derrickson, regista degli acclamati Sinister e Doctor Strange (tra gli altri).

Black Phone (trailer) è in realtà un adattamento cinematografico dell’omonimo racconto del 2004 scritto da Joe Hill. Al centro della vicenda abbiamo Finney Shaw (Mason Thames), un ragazzo di 13 anni rapito e rinchiuso da uno psicopatico comunemente riconosciuto come “il rapace”, già autore di diverse sparizioni di bambini e ragazzi. Mentre la polizia e la sorella sensitiva indagano separatamente sulle sue tracce, un telefono senza fili apparentemente non funzionante sembra mettere in contatto il protagonista con le precedenti vittime del serial killer.

Nonostante queste premesse, Black Phone si rivela, purtroppo, un film privo di una vera identità. La retromania continua a perseverare nel mondo dello spettacolo  (e come ci dimostra il sempre verde Stranger Things siamo ben lontani dal salutare questa corrente) e per chissà quale motivo sembra trovare un corrispettivo accogliente nel mondo del cinema horror. Infatti, il film si ambienta indicativamente verso la fine degli anni ’70 eppure, contrariamente alla nostalgia che questo filone cerca di far provare perfino ai nativi digitali verso un’epoca che non gli appartiene, il mondo che ci viene mostrato non è una visione utopistica e sicura del passato, quel che vediamo è un quadro buio di una cittadina dove i bambini spariscono, subiscono abusi da parte dei genitori e non solo. Forse l’obiettivo era anche di far riaprire un po’ gli occhi e ricordare come la malinconia verso un passato apparentemente più semplice ed accogliente non è poi così attendibile come crediamo.

All’interno del generale citazionismo presente all’interno del film (a tratti forse anche troppo esplicito), il perno centrale della narrazione e dell’intera campagna marketing è costituito proprio dal rapace, il serial killer interpretato da Ethan Hawke. Paradossalmente si tratta sia del punto forte che di uno dei punti più deboli dell’intera produzione. Da una parte, infatti, abbiamo un Ethan Hawke all’apice, capace di inquietare il protagonista ed il pubblico con il solo utilizzo degli occhi, dato che per la maggior parte del film indosserà una maschera che gli coprirà mezzo volto. Dall’altra, però, abbiamo a che fare con una figura incolore, sì deviata e travagliata, ma priva di un minimo approfondimento psicologico sul personaggio, non si scava a fondo né si cerca di fornirci delle motivazioni vere e proprie o un accenno del suo passato che ci aiuti a capirne meglio la personalità, non ci sono pezzi da incastrare che permettano di ricostruirne un profilo vero e proprio.

Anche qui, la strada si divide in due direzioni. Da un lato, il presentarsi come una figura oscura e misteriosa gioca sicuramente a suo vantaggio: siamo davvero spaventati da ciò che non conosciamo, ciò che sfugge alla nostra comprensione. Dare delle spiegazioni è un’arma a doppio taglio, molto spesso capire cosa si cela dietro ad una maschera in qualche modo depotenzia qualsiasi cosa quella maschera nasconda. D’altra parte, Black Phone è ambientato nella fine degli anni ’70, ed è proprio in quel periodo che Michael Myers, un killer muto con una maschera bianca e nessuna spiegazione razionale alla sua apparente immortalità, faceva la sua prima comparsa nella sale statunitensi, per poi diventare una delle icone più famose nella storia del cinema horror. Vero è anche che da allora sono passati 44 anni e le esigenze del pubblico sono molto cambiate: oggi inevitabilmente uno psicopatico senza ragioni né background (e addirittura a tratti delle azioni veramente poco plausibili) appare un po’ poco, per lo spettatore contemporaneo.

Inoltre, per quanto non si possa dire che non funzionino a livello di intrattenimento, qualsiasi trama parallela a quella principale vissuta dal protagonista risulta pressoché inutile ai fini dello sviluppo della narrazione. Gwen Shaw, la sorella di Finney, funziona ed è simpatica allo spettatore, ma sfortunatamente nonostante costituisca l’unico altro personaggio rilevante all’interno del film la sua presenza è quasi irrilevante.

In sostanza, Black Phone è un film che sembra non riuscire mai davvero a prendere il volo. Lo si guarda e si ha la sensazione di star rivedendo sequenze prelevate e rigirate da altri film, si prova una sensazione generale di già visto e soprattutto si percepisce la volontà di affrontare diverse tematiche parallele e sviluppare più sottotrame intrecciate ma senza effettivamente concedere lo stesso spazio ad ognuna di esse. Non si raggiunge nemmeno un vero e proprio picco di violenza o di orrore, dato che Derrickson sceglie molto spesso di negarci la visione di scene particolarmente brutali, prediligendo una dissolvenza nera che lascia spazio all’immaginazione dello spettatore. Va riconosciuto, però, che almeno in due sequenze la tensione è veramente sovraccaricata e difficilmente si riesce a rimanere imparziali durante la visione. Sicuramente un film godibile ma che lascia un po’ l’amaro in bocca, come se si potesse fare di più ma si sia scelto di non esagerare.

Il film uscirà nelle sale il 23 giugno.

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