Il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino. Un muro la cui costruzione, ma soprattutto la cui caduta, è simbolo di una duplicità che, nel 2003, Good Bye, Lenin! (trailer), riportato di recente nelle sale, cerca di rappresentare tramite un tono ironico e paradossale, che esce dagli schemi classici della memoria storica.
Wolfgang Becker, che ne cura la regia, ma anche la sceneggiatura, non ha bisogno, infatti, di ricorrere ai modelli poetici tipici dei precedenti film, che ricadono in un processo di vittimizzazione. Decide invece di esorcizzare tutto il vissuto doloroso tramite un’accesa rappresentazione di un’eterotopia interna al corpo degli stessi berlinesi dell’est, che partecipano a entrambe le culture (quella occidentale e quella dell’Unione Sovietica). Questi cittadini vivono in un continuo stato di estraneità, che emerge solo dopo la caduta di quel muro che tanto avevano desiderato abbattere, ma che ora, con la fine delle illusioni, creava una grande nostalgia per un mondo destinato a essere dimenticato. “Da dove vieni?” chiedono i fratellini della Berlino ovest ad Alex, “Da un altro mondo” risponde lui perso nei suoi ricordi.
Partendo dal 1978, dalla missione spaziale di Wolfgang Jahn, Good Bye, Lenin! usa come cornice la Storia per parlare della catastrofe nella vita di Alex. Alex (Daniel Brühl) è un bambino che, dopo che il padre fugge a ovest, si ritrova a doversi prendere cura della madre, Christiane (Katrin Saß), che per un lungo periodo, in preda a un crollo nervoso, si rifiuterà di parlare. Nel tentativo di superare il trauma, finirà per considerersi «sposata alla causa socialista». È proprio da questo preludio che il film trova il suo punto d’inizio. Vedendo il figlio arrestato durante una manifestazione antigovernativa, Christiane, in seguito a un infarto, entra in coma che durerà per otto mesi.
Durante questo periodo, attraverso gli occhi innamorati di Alex, lo spettatore vede cadere il muro e svuotarsi Berlino est, in trepidante attesa di un futuro «incerto, ma carico di promesse», afferma il protagonista. In questo frangente, tramite una mossa pienamente metacinematografica e citazionista, la “riproposizione” di una sequenza di 2001: Odissea nello spazio e le immagini davanti agli schermi cinematografici, vengono evidenziate caricaturalmente le differenze tra i Wessis (berlinesi dell’ovest) e gli Ossis (berlinesi dell’est) e quindi quel sentimento di estraneità che accompagnerà Alex per quasi tutto il film. A questo punto la trama si snoda. Christiane, rimasta con la memoria a otto mesi prima, si sveglia, ma qualsiasi choc sarebbe pericoloso per la sua vita. Alex, che, da dopo la fuga del padre, si era ripromesso di prendersi cura della madre, decide, tramite l’aiuto di un collega, Denis (Florian Lukas), un occidentale, di ricreare una serie di “falsi documentari”, che, manipolando la realtà, nascondono il presente, in un immaginario passato mai esistito.
Becker così mette in campo la nostalgia pre-caduta del muro, di quando si era pieni di speranze, di utopie. Utopie che si concretizzano in oggetti di culto, come i cetriolini sotto aceto, ormai introvabili nella nuova Berlino unita. In questa rimediazione, attuata attraverso i mezzi di comunicazione, Alex cerca di fuggire a un addio al sistema. Quello stesso sistema che aveva osteggiato e la cui fine, però, aveva prodotto un malinconico sentimento di lutto, legato alla fine delle illusioni e all’accettazione che ciò che avevano visto dell’ovest in tv non era reale, esattamente come non è reale ciò che lo stesso Alex stava riproducendo per la madre attraverso la stessa televisione.
Tutto ciò arriva al suo apice alla fine di Good Bye, Lenin! con una nuova citazione cinematografica, questa volta della Dolce Vita di Fellini. Scena in cui trova il suo senso l’intero titolo del film. La madre, uscita fuori dalla stanza in cui era relegata, non solo si ritrova in un mondo che non corrisponde al suo immaginario televisivo, ma, alzando lo sguardo, vede un elicottero che porta via, in un lento “goodbye”, una statua di Lenin. Si arriva così alla fine dei sogni, all’accettazione della realtà non apparente ma vera. Si arriva così alla fine di quella Berlino est, che, però, con un’ironia che largamente si rifà a Wilder (la stessa citazione a Kubrick è rappresentata tramite uno spot della Coca Cola, che ricorda il film stesso di Wilder, One, Two Three, non a caso girato pochi mesi prima dalla costruzione fisica del muro) non deve essere dimenticata e deve portare a nuove riflessioni legate ai mezzi di comunicazione, che diventano i veri protagonisti dell’intero film.