Chien de la casse, la recensione: l’esordio di Jean-Baptiste Durand

Chien de la casse, recensione del film di Durand

Come tutte le sere, in un piccolo e desolato paese della campagna francese, Antoine (Raphael Quenard) e Damien (Anthony Bajon) si danno appuntamento nella piazza del centro abitato, insieme ai pochi altri ragazzi del paese. È un rituale che però non nasce da un’effettiva voglia di incontrarsi, bensì dal reiterarsi di un’attività ormai vuota, che riflette l’aridità offerta dalla realtà rurale. Appena giunti in piazza, i ragazzi non sembrano avere altra scelta che punzecchiarsi e prendersi in giro a vicenda, senza preoccuparsi di tirare troppo la corda. Fra tutti spicca la personalità di Antoine, che lamenta a gran voce la sua contrarietà per il sentirsi confinato in un paese fantasma: «mi verrà un cancro se passo anche solo un altro mese qua!». Damien, dal canto suo, dà l’aria di essere maggiormente a proprio agio, come se il film abbia in serbo qualcosa per lui. Qualche giorno dopo, infatti, Elsa (Galatea Bellugi), una ragazza di città, arriva nel paese per qualche settimana. Sarà proprio il suo arrivo a mettere in discussione l’equilibrio di amicizia, durato ormai 15 anni, di Antonie e Damien.

Chien de la casse (trailer) è il primo lungometraggio scritto e diretto da Jean-Baptiste Durand. A detta dello stesso regista francese, questo film vuole rappresentare la particolarità della realtà sociale di campagna dei nostri giorni; uno scenario di vita che pare destinato ad estinguersi, dove non soffia più alcun vento di rinnovamento, dove ai giovani non sembra restare altro che guardare lontano, oltre i campi deserti. La vicenda narrata, afferma Durand, ha una forte ispirazione autobiografica, dove gli eventi rappresentati sono in parte inventati e in parti tratti dalla propria esperienza. Sarà stata proprio questa natura intima e biografica del film ad aver conferito all’opera il successo all’esordio: miglior opera prima e miglior attore esordiente del premio César a Raphael Quenard.

Un merito particolare del film infatti va all’interpretazione di Quenard. Nonostante all’inizio la regia sembri seguire il punto di vista narrativo di Damien, come a suggerire che sia lui il protagonista del film, il cardine della trama è Antoine, vera anima della storia e del paese deserto. Rappresenta la volontà di un cambiamento che manca, il principio di rinascita che pare rimanere inascoltato dai suoi coetanei. Antoine del resto è quasi un artista: legge molto, studia letteratura, addestra magistralmente il suo fedele cane, si preoccupa di tenere vive le relazioni interpersonali fra le persone del paese. Da grande vorrebbe diventare uno chef, forse perché sa come sfruttare al meglio gli ingredienti che ha a disposizione, sa ricavare una buona ricetta dalla realtà che ha a disposizione. È l’unico fra tutti a conoscere la corretta preparazione della ricorrente carbonara (anche se al posto del pecorino gli è sfuggito un «parmigiano»). Al contempo però, a testimonianza della complessità del personaggio, è anche lo spirito dionisiaco che si ribella alla realtà e che rischia di essere fagocitato dalla sua stessa attitudine decostruttiva.

chien de la casse, la recensione del film

Nonostante parta da una forte premessa, che vuole presentare una realtà potenzialmente ricca di conflitto e dunque di articolazione narrativa, Chien de la casse rimane un film di natura un po’ oscura. Sono molte, infatti, le semine e le premesse che non sembrano trovare una vera e propria evoluzione o trasformazione. Diversi eventi e situazioni rimangono confinati ad un’esistenza contingente e immotivata, più che causale e consecutiva. La stessa frase di Antonie citata all’inizio pare essere la prima di varie provocazioni che il film vuole trasmettere allo spettatore, per stimolare la sua aspettativa e curiosità; eppure vien da chiedersi se tale attesa trovi effettivamente uno sfogo narrativo congruente, una risoluzione. In altre parole, il film sembra arenarsi su una staticità narrativa che porta in gioco nulla se non gli stessi ingredienti che avevamo sin dall’inizio. Gli (scarsi) elementi di novità che si vedranno a fine film basteranno a restituire un quadro nuovo alla storia e ai personaggi? Si avrà comunque una risoluzione parziale dei turbamenti che li animano?

Alla luce di tali osservazioni, vien da chiedersi quali siano le intenzioni del regista nella creazione di questo film. Di fronte all’immobilismo narrativo ed evolutivo messo in scena, si vuole forse restituire un quadro freddo, distaccato, passivo, senza imprinting narrativo o si vuole lasciare spazio a speranze, nel timido tentativo di andare oltre la realtà data? Lo scopo del regista è quello di rappresentare un docufilm acritico o di incoraggiare l’evoluzione dei personaggi, anche solo mediante l’atto creativo di rappresentarli sul grande schermo, trasportandoli fuori dalla loro prigione?

Al cinema dal 23 maggio.

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