Archive 81, la recensione: Netflix indaga l’horror con una nuova serie TV

Archive 81, la recensione della serie TV su Netflix

Dan Turner, interpretato da Mamoudou Athie, è uno di noi. Appassionato di cinema e nerd quanto basta, tanto che – più fortunato di noi – fa della sua passione un lavoro. Proprio attraverso un lavoro Dan inizia la sua discesa negli inferi, o meglio, nell’Oltremondo. Specializzato nel restauro di archivi analogici, il nostro protagonista si trova davanti a un’offerta difficile da rifiutare: Virgil Davenport, proprietario di una grossa ma sconosciuta azienda, gli offre vitto, alloggio e un profumatissimo compenso solamente per visionare e restaurare delle vecchie VHS rimaste danneggiate a seguito di un tragico incendio avvenuto nel 1994. Nonostante Dan nutra inizialmente qualche dubbio, accetta ben presto l’offerta di Davenport (Martin Donovan) e così, restaurando i video, scopre qualcosa di occulto a cui sente di essere legato.

Totalmente immerso nella visione delle cassette, Dan si appassiona e affeziona facilmente alle vicende del Visser, il misterioso palazzo andato a fuoco nel ‘94, e dei suoi inquilini. Essendo però del tutto isolato in un grande complesso sperduto nei boschi, deve fare affidamento sul suo amico d’infanzia Mark (Matt McGorry), che, le rare volte in cui riescono a mettersi in contatto, gli fornisce tutte le informazioni che trova. I due ben presto ricostruiscono un puzzle in cui Dan sembra essere sempre più coinvolto.

Archive 81 (qui il trailer) è una serie originale Netflix disponibile in piattaforma dal 14 gennaio. Alla produzione hanno partecipato personalità molto affermate nel panorama dell’orrore, come James Wan e Paul Harris Boardman nel ruolo di produttori esecutivi mentre la maggior parte degli episodi è stata affidata alla direzione di Rebecca Ann, regista in ascesa che lavorò ad alcuni episodi della seconda stagione di Stranger Things.

Archive 81, la recensione della serie TV su Netflix

Sebbene la trama sia molto semplice e tipica degli horror spiritici, Archive 81 si presenta come una riflessione metalinguistica sul cinema horror di genere. La trama sviluppa tre linee temporali che hanno inizio con uno snuff movie girato negli anni venti e proseguono negli anni novanta con le riprese amatoriali della co-protagonista Melody Pendras (Dina Shihabi); compito di Dan, oggi, quello di ritrovare lo snuff movie e far luce sugli inquietanti foundfootage girati al Visser da Melody. Impossibile in questo caso non ricordare The Blair Witch Project, cui un personaggio farà anche esplicito riferimento.

Le riprese di Melody infatti, com’è ovvio che sia per dei video amatoriali, si presentano come segmenti girati in soggettiva, favorendo la totale immersione del protagonista (e dello spettatore) nelle vicende del ’94. Lasciandosi un po’ ispirare si possono intravedere anche riferimenti al sottogenere dell’horror sci-fi:. Infatti, sebbene l’atmosfera predominante sia quella dell’occultismo e delle sette (troviamo alcune scene alla Eyes Wide Shut), l’universo alternativo cui il titolo fa riferimento non è il classico oltretomba ma appunto un altro universo, un universo parallelo, l’Oltremondo, che volendo potremmo definire versione più spiritica e meno mostruosa del Sottomondo in Stranger Things.

L’aspetto sicuramente più interessante di Archive 81 è la centralità del ruolo dei video e conseguentemente degli schermi, che diventano, senza filtri e stratagemmi di mezzo, vero e proprio portale per l’Oltremondo. Intuibile fin dai primi episodi, la questione viene chiarita nel sesto e ultimo episodio da Virgil, con un’importante e affatto scontata precisazione: è la pellicola, film per antonomasia, che impressionata di chissà quale entità o energia, apre le porte dell’universo alternativo. Questo aspetto apre un’ulteriore riflessione metalinguistica sulle possibilità del mezzo in campo spiritico, argomento discusso dalle teorie della fotografia e del cinema già a partire dagli ultimi decenni dell’ottocento.

Archive 81 risulta un prodotto di riflessione sul cinema di genere ma è anche e soprattutto omaggio alle potenzialità e qualità esclusive del sistema analogico. È insomma una perla (sempre meno) rara nel grande archivio Netflix, che però purtroppo in chiusura non rinuncia al solito finale cliffhanger che ammicca a un eventuale secondo capitolo.

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