Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities, la recensione della serie su Netflix

La stanza delle meraviglie di Guillermo del Toro, recensione serie Netflix

Se c’è una cosa che Guillermo del Toro riesce a fare con gran maestria è trasportare lo spettatore nel suo mondo magico e macabro in maniera fluida e continua, attraverso racconti dalle tinte dark e le sfumature fiabesche. Questa volta il regista messicano, quasi “all’alba” della notte dei morti viventi, è tornato in gran stile presentando Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities (trailer), serie antologica basata sull’omonima opera di Del Toro e disponibile su Netflix dal 25 ottobre. 

Del Toro introduce le otto storie dall’impronta horror e dark fantasy (si ritrovano anche caratteri di Gothic e Grand Guignol) personalmente, alla Alfred Hitchcock presenta, aprendo i cassetti oscuri del suo affascinante wunderkammer da cui preleva oggetti riconducibili al racconto. Proprio come un Caronte terreno, poi, traghetta lo spettatore in uno spazio in cui la realtà conosciuta non esiste e la paura più profonda prende forma. 

Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities inizia con Lotto 36, short-story di Guillermo del Toro con la regia di Guillermo Navarro (vincitore di un Oscar per la fotografia de Il labirinto del Fauno). Il protagonista è Nick Appleton (Tim Blake Nelson), un uomo che deve cercare di sopperire ai gravi problemi economici in cui naviga. Quando acquista il lotto 36, si imbatte in alcuni pezzi di valore che il suo proprietario custodiva con cura. La sua incontrollabile brama di soldi e il intenso razzismo lo conducono però ad un destino infausto, in cui il prezzo da pagare è molto più alto di quello che ci si aspetti. Attraverso una scelta cromatica calda e l’alternanza assidua di luci e ombre, Navarro sottolinea con minuzia l’inganno delle tentazioni terrene a cui segue – senza via di scampo – l’ingresso nelle tenebre. Seppur il ritmo sia meno incalzante rispetto allo stampo della storia, Del Toro ci catapulta subito in quell’abisso orrorifico e tetro cosparso di mostri, dal quale si cerca di fuggire quando è oramai troppo tardi. La morale? C’è una scadenza anche per redimersi. 

Le bare sono l’eterna abitazione dei corpi dei defunti, ma cosa succede se dissotterrandole si scoprisse che questi vengono rubati da topi giganteschi? La seconda short-story si intitola I ratti del cimitero, scritta da Henry Kuttner e diretta da Vincenzo Natali (Cube). Nell’oscurità dell’epoca vittoriana, il custode del cimitero di Salem, Masson (David Hewlett), profana le tombe dei morti per poter sottrarre loro oggetti di valore e pagare così i suoi debiti. Ma quando queste si scoprono vuote a causa di roditori che le bucano e trascinano via i cadaveri con i loro beni, l’uomo si trova costretto a inseguirli nel sottosuolo. La componente religiosa qui è prorompente: l’evocazione di Dio, in netto contrasto con l’entità sinistra sottoterra, è un richiamo a quella fede che nelle produzioni deltoriane costituisce una caratteristica. Natali è stato poi abile nel restituire senso di oppressione e soffocamento attraverso inquadrature nette con prevalenza sui primi piani, mentre si sprofonda nell’oscurità sempre più fitta. Il racconto grottesco si conclude anche qui con una morale: la ricerca morbosa della ricchezza porta solo all’inferno.

L’autopsia

Uno strano omicidio. Un asettico obitorio. Una presenza sovrannaturale. Questi gli ingredienti gettati nel calderone per cucinare L’autopsia, un piatto dai toni splatter e i contorni noir, scritto da Michael Shea e diretto da David Prior (The Empty Man). Carl Winters (un lucido e freddo F. Murray Abrahm), deve svolgere un’autopsia su un gruppo di minatori per decretare la causa della loro morte. Ma quando il corpo di uno di questi torna in vita, l’uomo è costretto a confrontarsi con qualcosa che va oltre i limiti dell’immaginazione. L’attenta e fin troppo realistica ricostruzione dell’autopsia fa cambiare registro al racconto che assume aspetti, oltre che macabri, estremamente raccapriccianti. La dissezione dettagliata del corpo, con la macchina da presa che punta sugli organi, Prior la mostra senza alcun filtro. L’obiettivo è portare lo spettatore dentro uno spaccato di realtà ospedaliera considerato fra i più difficili dove la morte si “tocca con mano”. Quando il sipario si chiude, lo stomaco si stringe e l’angoscia pervade. 

La ricerca della perfezione è utopia, ma se la si potesse raggiungere grazie ad un prodotto di cosmesi? Questo è il tema centrale de L’apparenza, storia scritta dalla inconfondibile fumettista Emily Carroll sotto la regia rivoluzionaria ma precisa di Ana Lily Amirpour (A Girl Walk Home Alone at Night, Mona Lisa and the Blood Moon). Stacey (Kate Micucci) è una donna quasi invisibile. Lavora in banca e ha una passione per l’imbalsamazione degli animali. Quando una sua collega le regala Alo Glo, una crema miracolosa, la vita di Stacey cambia completamente. Decisa a rincorrere la via della bellezza, sotto l’influenza di uno spot pubblicitario con un inquietante Dan Stevens a trascinarla nel baratro, la donna subirà una trasformazione da bruco a farfalla… ma con terribili conseguenze. Il timone di questo racconto non poteva che essere affidato alla Amirpour e il suo taglio registico si evince sin dal primo sguardo sulla Micucci. 

Il tema degli emarginati – principalmente delle donne – è ricorrente nelle sue pellicole, come ricorrenti sono i pochi dialoghi volti ad enfatizzare quasi uno stato di alienazione. Ed è per tal motivo che questo episodio risulta essere il più forte a livello visivo e significativo. La Amirpour ci aggancia mentalmente alla condizione umana e sociale di Stacey, una donna ingannata dalle parole ipnotizzanti dei mass media, piegata al volere di uno Stato – e di una società – che in modo perpetuo cerca di cambiarla. La debolezza della psiche umana, la propaganda nociva di modelli di riferimento sbagliati, l’importanza estetica rispetto a quella dell’animo portano in scena la società malata e corrotta in cui si vive e da cui sradicarsi è difficile. Ciò che fa rabbrividire è la prova di come noi, d’altra parte, ci facciamo facilmente ingannare. 

Mai osservare bene un quadro. Ciò che giace al suo interno potrebbe essere mostruoso. È questa la chiave de Il modello di Pickman, quinto episodio di Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities La short-story è di H.P Lovecraft, e Keith Thomas (The Vigil) si posiziona in cabina di regia per dirigerla. William Thurber (Ben Barnes) è un pittore che si lascia trasportare nel mondo orrorifico del signor Pickman (Crispin Glover) e dei suoi quadri maledetti, per venire poi perseguitato da essi. Lo sguardo sui dipinti, che sembrano raccontare le paure dell’uomo, è l’arma usata nella storia per innescare incubi e angosce. Thomas riesce a stordire lo spettatore mentre pone in soggettiva le sensazioni di Thurber, costringendolo ad affrontare le paure più recondite della sua mente. Gli incubi qui diventano realtà, si impossessano della quotidianità e si legano come un cappio alla gola per farlo ansimare. La suspense è palpabile e si impregna nella scelta di un profilmico completamente avvolto nel buio, le cui luci si accendono solo per esaltare i mostri da cui si tenta di fuggire.

Se tua sorella morisse, affronteresti l’aldilà per lei? Walter Gilman (Rupert Grint) ne ha addirittura l’ossessione. La terzultima storia dell’antologia deltoriana si chiama Sogno nella casa delle streghe ed è tratta da un altro racconto di Lovecraft, seppur non segua una “trasposizione fedele”. Alla regia Catherine Hardwicke (Twilight), che contribuisce ad affossarla ancora di più. Walter è un giovane disperato alla ricerca della sua gemella morta quando erano piccoli. Nel tentativo di riportarla indietro, si imbatte nella strega Keziah Mason, condannata a morte molti secoli prima a Salem. In una lotta fra Gilman e Keziah, la Hardwicke sembra rinunciare alla spettacolarità della guerra fra bene e male, fra Dio e le forze sinistre. Tutto viene mostrato in modo quasi “casereccio”, facendo sembrare il filmico molto più posticcio e privo di pathos. Nessun plot twist a cui aggrapparsi e nessuna suspense a trasmettere quella scossa necessaria per arrivare stremati alla fine della lotta. Non sorprende che sia fra gli episodi meno riusciti dell’antologia. 

Bisogna stare attenti a ciò che si colleziona, a volte potrebbe essere mortale. Il settimo episodio è La visita, con la regia di Panos Cosmatos (Mandy). Lionel Lassiter (Peter Weller) è un collezionista miliardario e sui generis, che chiama a raccolta personaggi esperti nelle più disparate materie (scienziati, sensitivi, musicisti, romanzieri) per metterli davanti a “qualcosa di assolutamente sconosciuto alla loro conoscenza”. Il regista sfrutta le luci psichedeliche per costruire il suo universo irreale e allucinante, ponendo i suoi personaggi in una condizione di assoluta distorsione mentale. Grazie alla messa in scena dello stato psichico del gruppo, causato dalle droghe e dai funghi allucinogeni, Cosmatos riesce a creare un’atmosfera confusionaria ma al contempo anestetizzante, in grado di destabilizzare lo spettatore e porlo in uno stato di trans. Ciò che si vede alla fine è davvero successo oppure no? Probabilmente è l’effetto degli stupefacenti. 

Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities termina con Il brusio, short-story di Guillermo del Toro diretta da Jennifer Kent (The Babadook). Nancy (Essie Davis) ed Edgar (Andrew Lincoln) sono due ornitologi che si trasferiscono temporaneamente in una casa di campagna vicina a un lago per studiare alcune specie di uccelli. Durante il loro soggiorno la donna inizia a captare strane presenze, decidendo di scoprire cosa si celi in quella misteriosa dimora. La casa ancora una volta torna ad essere un topos del racconto, luogo in cui di notte le creature più spaventose escono allo scoperto pronte per perseguitarci. Seppur la trama di base risulti banale, l’episodio esplora i rapporti umani e coniugali incrinati dalla sofferenza e dall’impossibilità – spesso e volentieri – di metabolizzare un dolore traumatico. L’uso di jump scare rende il ritmo incalzante, ma la narrazione sfocia talmente tanto nella noia che la soglia di attenzione vacilla pericolosamente. Forse l’obiettivo non era avere un finale con il botto, eppure è un peccato che l’ultimo episodio abbia una trama conclusiva così fragile e scontata. 

In conclusione, Guillermo del Toro’s Cabinet of Curiosities è un prodotto che abbraccia in maniera funzionale generi affini fra loro seppur la spettacolarità delle storie sia discontinua. Del Toro ha viaggiato attraverso le epoche, seminando volutamente in ogni racconto un messaggio e una morale che potesse condurre a una riflessione. Come un grande capocomico ha “assoldato” registi abili a dare un taglio netto alla loro opera grazie a scelte cromatiche, scenografiche e stilistiche ben precise. Ognuno di loro ha svolto un lavoro meticoloso e minuzioso e il consiglio è di goderselo a luci spente. Per cui buon viaggio nell’oscurità. 

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