#Venezia79: Padre Pio, la recensione del film di Abel Ferrara

Padre Pio, la recensione del film di Abel Ferrara

Padre Pio (clip) di Abel Ferrara, nuovo film del regista statunitense in concorso alle Giornate degli Autori, si apre con un’introduzione del protagonista, interpretato da Shia Labeouf, in campo lungo, quasi in dialogo con Dio. Nel corso della sequenza più stacchi riprendono proprio i cieli – la luce divina? -, il sole accecante del sud che illumina e allo stesso tempo opprime. Un inizio a suo modo sorprendente, programmatico, per la sua capacità di stabilire subito connessioni con il resto degli ultimi capitoli della filmografia di Ferrara, dall’incipit del semiautobiografico Tommaso o anche 4:44 e l’insolito biopic Pasolini; per la semplicità con cui, di nuovo, Ferrara pone le basi per un percorso “ascendente”, di natura spirituale.

Ma con lo scorrere dei minuti sorgono dei dubbi e le domande che ci poniamo iniziano ad aumentare, confondersi tra di loro: perché Padre Pio? Perché Abel Ferrara sceglie questo personaggio emblematico del primo Novecento italiano e cattolico? Le sequenze intanto si susseguono, i conflitti principali vengono delineati e si procede spediti verso il 14 ottobre 1920, giorno del tragico eccidio di San Giovanni Rotondo. Questo evento viene utilizzato da Ferrara come perno del grande montaggio parallelo che caratterizza Padre Pio: quello tra i conflitti interni vissuti da Pio di Pietrelcina e gli scontri prima ideologici poi sanguinolenti tra la comunità socialista del paese e i proprietari terrieri, alleati della Chiesa.

La fine della Prima guerra mondiale ha restituito alla nazione soldati feriti o vuoti incolmabili, per chi ha ritrovato solo bollettini col nome dei propri cari. Nell’intensità dei ricongiungimenti c’è chi piange, chi non riesce a ritrovare una direzione nella propria vita, e chi, stanco, decide di scendere in campo (politico) per lottare. Siamo dunque all’alba delle elezioni libere, così come lontanamente possiamo scorgere i primi segni del fascismo. Fra’ Pio intanto prega, in silenzio, e l’unico suono della sua voce ci arriva dalle sue lettere, lette sempre in voice over.

Labeouf in tutto questo, nella sua prorompenza fisica, nelle sue esplosioni nervose, risulta essere l’interprete più adatto per una personalità che sembra essere uscita dai film di Ferrara degli anni ’90. Il regista, assieme a Maurizio Braucci (che ritroviamo dopo la collaborazione per Pasolini), ha scelto consapevolmente di dar vita esclusivamente al pensiero e ai conflitti interiori del santo cattolico. Centrali, non a caso, sono anche le visioni, le apparizioni esperite dal padre, che sotto l’occhio di Ferrara diventano violente, erotiche, contrastate, viscerali. Ancora battaglie, ma interiori, proiettate verso l’esterno dalla performance sofferta e spasmodica del suo protagonista.

Abel Ferrara affronta ancora una volta il biopic, stavolta definito “documentario” per la sua attitudine a inquadrare il suo protagonista in un periodo di mezzo decisivo per il Novecento – la “pace” tra le due Guerre Mondiali -, e trova nel suo protagonista, nelle celebri stimmate, il correlativo di una via crucis. Un simbolico percorso d’espiazione dei peccati, quasi di redenzione e di ricerca della fede, teso verso una definitiva unione con essa.

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