«Non so dove sarò fra cinque anni, ma sono giovane e vivo». Queste sono alcune delle parole del ritornello di What a life, brano degli Scarlet Pleasure. Brano che accompagna una delle scene finali più potenti, ritmate e belle del cinema. La scena in questione è quella dell’ultimo film di Thomas Vinterberg: Un altro giro (trailer), selezionato al Festival di Cannes del 2020, ma presentato, alla fine, al Festival di Toronto e alla Festa del Cinema di Roma. Una scena frizzante e piena di una carica emotiva e visiva impressionante; una scena così tanto viva da poter avere un valore ontologico anche se presa staccata dal film stesso, ma forse, il problema di Un altro giorno è proprio questo.
Ad aprire il lavoro di uno dei capisaldi di Dogma 95, è una citazione di Kierkegaard, filosofo particolarmente amato dai registi europei (come dimostra anche il precedente caso di Mr. Nobody del regista belga Jaco Van Dormael). «Cos’è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto di un sogno». Comincia così una melodia cantilenante che permette allo spettatore di abbandonare momentaneamente non solo lo schermo nero, ma anche la poltrona stessa del cinema, immergendosi in quel “sogno”. Il sonoro, come farà per tutto il film, predomina sul senso delle immagini, cullando quest’ultime all’interno del turbinio di un montaggio calzante, quasi frenetico e forse agli antipodi della musica adottata per la sequenza stessa. Mentre il pubblico è pian piano sempre più rapito, tanto dalla nenia, quanto da queste immagini che rappresentano una moltitudine di ragazzi nel fulcro della loro giovinezza e della loro gioia, Vinterberg decide di mozzare bruscamente questo piacere, privandocene, rendendoci come Martin, surrogato protagonista dell’intera vicenda.
Martin, un professore di storia, ormai non più “giovane”, interpretato da un azzeccato Mads Mikkelsen (Il sospetto, Hannibal), ex pupillo di Refn, alla sua seconda collaborazione con Vinterberg, è nel bel mezzo di una crisi di coppia. Crisi che l’intero film spiega, in chiave kierkegaardiana, come risposta dell’uomo alla possibilità di fallire (vera protagonista dell’opera). Ecco qui, allora, che Un altro giro diventa una catarsi contro un oblio totale. Martin insieme ai suoi colleghi e amici decidono di sperimentare, o meglio di sperimentarsi, per dare una nuova scintilla a una vita che ormai sembra essere in stallo. Stallo che il regista danese rende magnificamente già nelle prime sequenze dove, in continui spazi chiassosi e pieni di vita, si sofferma sugli sguardi vuoti dei quattro personaggi.
Così, con una regia estremamente calda e attaccata alle sue cavie, Martin e i tre colleghi iniziano a provare cosa comporterebbe eliminare, ogni giorno, il difetto di alcol mancante nel nostro sangue, ovvero lo 0,05%. Se l’effetto desiderato, tuttavia, era quello reso perfettamente dall’atmosfera della prima sequenza (una rilassante spensieratezza), ciò che l’assunzione di circa due bicchieri di vino provoca è un continuo innesco di bombe. Si ha quindi la miccia per continue sequenze in cui la regia cerca di Un altro giro di spingere i personaggi a fare un salto che però la macchina da presa compie, senza essere mai seguita. E se ciò, comunque, con le dovute virgolette, può continuare essere un punto a favore del film, quest’ultimo trova il colpo di grazia dalla seconda metà del secondo atto e per quasi tutto il terzo. La sceneggiatura, infatti, inizia ad arrovellarsi intorno a nuovi escamotage che possano far saltare questi personaggi, diventando forse eccessivamente ridondante e svuotata di senso. Svuotata di senso perché per quasi una decina di minuti, precedenti l’ultima sequenza, non si trova una soluzione ritmica all’innesco creato, ma si lascia semplicemente sfiatare il contenuto della bottiglia fino alla final image. Immagine che recupera la verve del potenziale inespresso del film stesso, ma, a causa della sua forza espressiva, appiattisce ancora di più tutto ciò che lo precede, rischiando di lasciare diversi spettatori indispettiti.
Alla fine, quindi, se l’intero Un altro giro gioca sulla metafora dell’alcol, assunto come correlativo oggettivo per identificare l’incapacità umana di accettare le proprie cadute, l’impressione che l’intero lavoro lascia è quella di una sfumatura minerale che forse andrebbe ammorbidita, come con la vodka, con dell’acqua ghiacciata, affinché possa assumere una corposità quasi cristallina. Eppure, tutto questo poco importa. Non conta perché anche se, riprendendo una metafora del film stesso, si spera sempre di non finire come Hemingway, ma come Churchill, l’importante non sono la caduta e la pistola sempre più vicino alla tempia, ma il fatto stesso di essere ancora vivi; di essere un film così carico e denso da poter urlare alla fine: «Fuck what they are saying, what a life».