Toxicily, il disastro industriale in Sicilia: Intervista ad Alfonso Pinto

alfonso pinto, intervista

Il 18 aprile è uscito in sala Toxicily (trailer): il documentario che racconta e denuncia la grave questione dell’inquinamento industriale nella provincia di Siracusa. Il film uscirà prima in alcune città in Sicilia, per arrivare poi in Puglia, Lazio e Veneto. La problematica evidenziata nel film è chiara e gli autori lavorano per raccontarci le storie degli abitanti di questa cittadina del siracusano, in cui è concentrato un enorme complesso industriale, che da un lato crea posti di lavoro e aiuta di fatto molte famiglie a sostentarsi, ma dall’altro porta un grosso inquinamento nel mare, nel terreno e nell’aria che viene respirata ogni giorno dagli abitanti della zona. Abbiamo incontrato Alfonso Pinto, co-autore del documentario e ricercatore presso l’università di Lione, il quale si è spesso occupato del problema dell’inquinamento derivato dall’industria petrolchimica e ci ha parlato del lavoro per questo film – realizzato in collaborazione con il regista francese François Xavier Destors – e del forte messaggio che lancia. Toxicily è un’opera interessante che cerca di varcare i confini del genere documentario e porta un visione autoriale ben visibile nelle scelte artistiche. Ha una fotografia curata attentamente, che eleva il film a livello di qualità delle immagini e gli da una bellezza estetica singolare.

Hai lavorato come co-autore in questo progetto, di cosa ti sei occupato nello specifico e com’è stata questa tua prima esperienza nel cinema?
Diciamo che io sono alla base del lavoro: tutto è nato da un mio progetto per l’università di Lione, che mirava a esplorare dei luoghi particolarmente inquinati. Prima di questo film mi sono occupato anche di progetti su geografia e cinema quindi, nonostante io non sia un professionista del cinema, avevo sempre praticato un po’ la materia, almeno a livello teorico. Poi abbiamo iniziato a lavorare insieme a François, che è il regista principale, io sono stato più autore, co-regista. Devo dire che comunque io e lui ci siamo integrati molto bene, ci siamo completati a vicenda. Magari per quanto riguarda le scelte puramente estetiche gli lasciavo l’ultima parola, però è stato un lavoro di squadra.

Hai detto che questa è la tua prima esperienza nel cinema. Mi interessava sapere come ti sei avvicinato a questo mondo e quali sono le tue influenze principali anche a livello artistico.
A me da giovane sarebbe piaciuto lavorare nel cinema e ci ho anche provato per un anno poi però ho preso la strada della ricerca universitaria. Comunque, anche per le mie ricerche, ho lavorato fin da subito sul cinema catastrofico. Io sono un geografo, mi interessava molto il concetto di immaginario della catastrofe, anche in relazione agli spazi. Ad ispirarmi sicuramente sono stati i precedenti documentari di François; poi ha giocato un importante ruolo nella mia vita il passaggio dalla fantascienza a problematiche concrete e reali. Da questo punto di vista è stata importante la serie True detective – la prima stagione – a cui ho lavorato per otto mesi, in ambito universitario, concentrandomi sul problema ambientale evidenziato dalla serie, anche se si tratta di una sotto traccia nella storia. Comunque la zona della Louisiana, in cui è stata girata la serie, è piena di aziende petrolchimiche, cosa che inizialmente non sapevo e l’ho scoperta studiando la serie.

Hai detto che il tuo percorso è partito dalla fantascienza, comunque mi sembra sia un genere che, insieme ai film distopici, spesso si sofferma sul problema dell’inquinamento e dell’ industrializzazione, molto più di altri generi cinematografici.
Indubbiamente è così. Io lavoravo molto sul lato catastrofico, non mi concentravo soltanto sulla fantascienza. Però sono d’accordo: pensiamo anche alle ambientazioni di Blade Runner, anche del sequel, Blade Runner 2049. Spesso faccio vedere ai miei studenti l’inizio di Soylent Green di Richard Fleisher. Io poi ho scelto di passare dall’immaginario delle catastrofi, alle catastrofi vere e proprie, scrivendo anche dei libri sul tema del disastro industriale.

La situazione che descrivete nel film è molto simile a quella che troviamo in altre città italiane, Taranto su tutte ovviamente. Ma penso anche a cittadine come Falconara Marittima nelle Marche, in cui c’è una piccola raffineria sul mare. Pensi che si potrà effettivamente arrivare ad un punto di svolta e poter cambiare una situazione del genere?
Il polo industriale di Augusta-Siracusa è uno dei più grandi d’Europa e comprende tante raffinerie e industrie chimiche. Pensa che negli anni ‘80 era il primo polo petrolchimico d’Europa, oggi non più, ma resta comunque il primo d’Italia. Anche se oggi l’attività è in calo. Questa ovviamente è sempre la domanda da un milione di dollari; sicuramente si può fare di meglio. Comunque già ci sono diverse inchieste per dei malfunzionamenti, che porterebbero alcuni parametri a rientrare nei limiti di legge e già questo non sarebbe male. Ovviamente non si risolverebbe del tutto il problema. È chiaro che, finché rimane tutto in mano ai privati, è difficile ipotizzare riconversioni. Per anni c’è stata una situazione totalmente selvaggia, nessuna regola. Quindi c’è un inquinamento storico, che si aggiunge alle attività che sono ancora in corso. Questo crea un’emergenza sanitaria importante, con casi di cancri e malformazioni.

Il cinema, da questo punto di vista, che ruolo può avere?
Sarebbe bello pensare che i film possano cambiare davvero il mondo. Sicuramente quello che può essere fatto è cominciare a parlarne, e più avanti sarà possibile fare un discorso più ampio su questa situazione in Sicilia; come accaduto per Taranto, che è diventato un caso nazionale. Il ruolo che può avere un film è quello di alimentare il dibattito.

toxicily, intervista

Ricollegandoci al lato estetico del vostro film, quanto influisce la presenza di un polo industriale del genere anche a livello estetico sul paesaggio?
Noi parliamo di un litorale coperto per 15/20 chilometri circa da fabbriche. Lì in mezzo c’è il sito di una città greca fondata nell’VIII secolo a.C. Questa zona è praticamente in stato di semi-abbandono, anche perché si trova in mezzo alle raffinerie. Chissà cos’altro è rimasto, invece, sotto le raffinerie. Ci sono anche delle zone che ospitano i fenicotteri, ma sono sempre contaminate. L’impatto sul paesaggio è proprio la prima cosa che ci ha colpito; un paesaggio devastato, anche perché l’industria porta con se delle discariche abusive, illegali. Il territorio viene utilizzato come una specie di pattumiera. Per non parlare del mare, che ne risente molto. C’è anche un altro aspetto – che ovviamente il film non riesce a descrivere – ed è la componente olfattiva e non è da sottovalutare, nonostante le cose, oggi, siano migliorate rispetto agli anni ‘70. Quando tira il vento, quando ci si avvicina alle industrie però si sente. È uno scenario desolato, tra fabbriche attive e fabbriche inattive e abbandonate.

Immagino poi che un complesso industriale come questo possa penalizzare anche il settore del turismo.
La cosa assurda di questo posto è che riesce ad essere bellissimo nonostante la devastazione. Siracusa comunque è lì accanto e non sembra soffrirne troppo. Poi ti dico la verità: io non credo molto al turismo di massa, perché è un’attività che distrugge in un altro modo. Sicuramente preferisco il turismo di massa alla petrolchimica; però voglio anche sfatare questo mito del turismo che ci salverà. In città come Siracusa o Palermo, il turismo sta creando altri danni. In ogni caso il turismo da quelle parti è difficile immaginarlo. Si tratta comunque di cittadine che non sono state capaci di trarre benefici economici grossi. Augusta, in particolare, sarebbe una città molto bella, con un patrimonio architettonico interessante, ma si trova in stato di semi-abbandono: ha un’edilizia scolastica pessima, un’offerta sanitaria al di sotto
delle medie regionali. Secondo me, vedendo il giro di affari di queste industrie, non c’è nemmeno un ritorno economico adeguato per la città. Ovviamente, grazie al lavoro nelle industrie, molta gente è riuscita a migliorare il proprio tenore di vita ma, oltre alla questione dei salari, non è stata un’esperienza industriale che ha creato sviluppo. Ha creato solo dipendenza.

Nel documentario ascoltiamo molte storie. Mi piace molto come le avete alternate fra di loro. Volevo sapere se per voi è stato facile convincere queste persone a raccontare la loro storia. Per alcuni di loro è stato naturale, per altri è stato più complesso e ci sono anche persone che si sono prese qualche piccolo rischio verso la loro situazione lavorativa. Si tratta pur sempre di un documentario cinematografico, non di un reportage, quindi spero che non succeda nulla. Ci sono comunque delle persone che hanno preso una decisione coraggiosa parlando con noi.

Nel documentario sollevate un tema molto interessante, che va oltre la questione ambientale, anche se questa resta importantissima. Parlo del discorso “vale la pena fare questo lavoro nonostante le conseguenze?”. Nel film avete riassunto molto bene la questione con la frase “il cancro o il pane?”. Volevo sapere il vostro pensiero in merito alla questione, anche perché penso sia una tematica su cui solitamente ci si sofferma poco oggi.
Lo scopo del film non era quello di dare delle risposte, anche perché non penso di avere delle risposte a problemi così grandi. Sicuramente volevamo far emergere delle
contraddizioni. In un posto come la Sicilia avere quel tipo di lavoro che ti dà una sicurezza economica è una rarità. Poi tutto dipende da caso a caso: ho conosciuto operai che erano abbastanza ingenui, altri invece erano estremamente lucidi e consapevoli della questione. Anche nel film vediamo Andrea che ha lavorato tutta la vita in fabbrica, pur essendo un membro di lega ambiente, accettando questo compromesso, ed è proprio lui a dirlo. Io comunque faccio sempre un passo indietro, non mi permetto di dare giudizi, perché il lavoro è sempre il lavoro. Forse occorre nascere lì per avere delle risposte. Dal mio punto di vista è una situazione difficile, però è solo il mio punto di vista, volevo che fossero loro a esprimere la loro opinione; stiamo comunque parlando di una situazione lavorativa rara da ottenere in Sicilia, che ha tolto, col tempo, ampi settori della popolazione dalla precarietà economica che, negli anni ‘40 e ‘50, era molto diffusa. Poi è chiaro, le cose potevano essere fatte meglio e comunque c’è sempre un prezzo che oggi sta venendo fuori. Penso comunque che questo benessere economico potrebbe finire nel giro di qualche generazione, e che le industrie finiranno. Io però non mi sento nella posizione di poter giudicare nessuno e rispetto qualsiasi scelta.

Un’altra cosa che volevo chiederti è se hai altri progetti in ballo. Sia tu singolarmente, sia con François come coppia.
Mi piacerebbe continuare, per me è stata una prima esperienza un po’ inaspettata. Ora capiremo come andrà questo film e da parte mia l’intenzione di continuare c’è. Anche da parte di François so che sarebbe bello riuscire a lavorare ancora insieme, anche perché le cose hanno funzionato alla grande, ci siamo trovati molto bene. È nato questo rapporto di collaborazione e amicizia che nel film penso emerga. Quindi sì, mi piacerebbe lavorare ad altro; al momento non c’è ancora nulla e aspettiamo di vedere come si evolverà la situazione. Io sono ancora con un piede nell’università, per la ricerca, mentre François è un regista in piena attività. Questo comunque è un mondo che mi attira tantissimo e sarò sempre grato a François, perché ha rivelato delle qualità in me che nemmeno io sapevo di avere.

La vostra sintonia si vede e avete tirato fuori un prodotto abbastanza singolare nel suo genere. Mi piace molto come avete creato l’atmosfera di una chiacchierata e non di un’intervista classica, spesso avete messo le persone a parlare fra loro e non direttamente davanti alla videocamera.
Ti ringrazio, la nostra è stata una scelta voluta, sia a livello estetico, sia per mettere a proprio agio chi stava davanti alla videocamera, non essendo abituato. Devo dire che come scelta ha funzionato. I documentari oggi cercano quasi sempre di restare sul piano della classica intervista. Il vostro lavoro è molto interessante e richiama un po’ a quella ondata di registi che, intorno agli anni ‘60 e ‘70, portava dei documentari artistici e alternativi. Secondo me questa tendenza, dopo di loro, si è un po’ persa, forse. Spesso, soprattutto in televisione, si tende a preferire qualcosa di informativo e didascalico. Noi siamo un po’ a metà, fra il cinema e il documentario. Ci siamo presi questa responsabilità, abbiamo voluto accettare questa sfida e, per fortuna, per ora abbiamo dei ritorni positivi.

Ti potrebbero piacere anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ho letto la privacy policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) e del D.Lgs. n. 196 del 2003 cosi come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.