#RomaFF18: Black Box, la recensione del film di Asli Özge

Black Box, la recensione

La vita di un condominio borghese di Berlino viene stravolta dall’installazione al centro del suo cortile di una black box, un misterioso contenitore nero in cui si stabilisce il nuovo incaricato dall’agenzia immobiliare per vendere gli appartamenti del palazzo. Questa è l’intrigante premessa che sta alla base di Black Box (trailer), film in concorso nella sezione Progressive alla Festa del Cinema di Roma, diretto dalla regista turco-tedesca Asli Özge.  

Dopo un inizio enigmatico e poco rivelatorio, in cui questo condominio viene circondato dalla polizia per una motivazione ancora ignota, si dipanano molto presto le intenzioni politiche del film. Il mistero e la curiosità di partenza, però, vengono progressivamente delusi e soppiantati dalla sfrontata banalità dei messaggi lanciati dalla sceneggiatura, veicolati in maniera fin troppo elementare. La metafora, infatti, diventa chiara sin da subito: dopo il lockdown forzato imposto dalle forze dell’ordine cresce improvvisamente la paranoia degli inquilini del palazzo, che per prima cosa mettono mano alle mascherine e ai disinfettanti, nel timore di una nuova pandemia.  

Di fronte all’obbligo di restare all’interno del cortile dettato dal signor Horn (Felix Kramer), metaforicamente il capo dello Stato-condominio, la “popolazione” si spacca a metà. C’è chi, come la protagonista Henrike (Luise Heyer), si fida ciecamente delle direttive imposte dall’alto, nella speranza di poter risolvere il problema ancora non identificato nel minor tempo possibile; qualcun altro, invece, è ferocemente critico nei confronti di questo stato d’emergenza e della crescente limitazione delle libertà personali, e inizia a raccogliere delle firme tra i condomini per portare la questione in tribunale. La mente va inevitabilmente alla psicosi del Covid e delle varie quarantene, periodo in cui il dibattito si infiammava giorno dopo giorno fino a polarizzarsi in estremità totalmente opposte (con il dilagare di complottismi e paranoia sociale).  

La regista si fa prendere la mano da questi continui parallelismi con la contemporaneità fino ad esasperarli: le similitudini diventano, con il passare della storia, fin troppo evidenti ed “urlate” e la ripetitiva metafora, più che far riflettere, stanca e assilla lo spettatore. La rappresentazione esorcistica delle paure dei nostri tempi diventa caricaturale e prevedibile, non supportata da un’adeguata messa in scena, fin troppo letterale. Il tutto deflagra quando iniziano ad emergere sempre più temi d’attualità, anche per pochi secondi, forzatamente inseriti per suggerire la parvenza di una polemica critica sociale: immigrazione irregolare, terrorismo, guerre (si menziona il conflitto russo-ucraino, ma sono palpabili anche le tensioni in Medio Oriente), Covid, vaccini e via dicendo. Decisamente troppa carne al fuoco, di cui non c’era bisogno e che non giova alla godibilità della pellicola.  

Con un continuo riferimento visivo a La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock nel tema dello sguardo voyeuristico rivolto ai vicini di casa, Özge vorrebbe riflettere sulla contraddittoria dialettica tra sicurezza e libertà e sulla diffidenza tra gli individui nelle situazioni di pericolo, che crea i presupposti dell’odio e della paura per il diverso. La sensazione finale, però, è quella di non entrare mai nel vivo della vicenda e dei sentimenti dei personaggi, talmente distratti da una metafora così didascalica e plateale che non coinvolge né intellettualmente, né emotivamente. 

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