«Noi siamo gli Scarpetta» ci terrà a ricordare a un certo punto, ad alta voce e in maniera netta, quell’Eduardo Scarpetta protagonista incontrastato di Qui rido io (trailer), ultimo film di Mario Martone presentato nella selezione del Concorso della 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
«Noi siamo gli Scarpetta», una sentenza, un monito, un patrimonio. Di tutto questo parla in effetti il film di Martone, che si concentra su una delle figure chiave della commedia teatrale napoletana a cavallo tra ‘800 e ‘900, creatore della maschera di Sciosciammocca che ha calato con estremo vanto la scure sopra la testa di un’altra icona partenopea come quella di Pulcinella. Sì, Qui rido io parla di eredità, del peso che curva le spalle di un uomo posto al centro in primis dal suo ego smisurato e che per questa ragione cammina comunque col petto all’infuori nelle carni dell’istrionico e polimorfo Toni Servillo.
Martone guarda all’artista non scindendolo mai dall’aura crepuscolare dell’uomo, il cui ritratto è gonfio, opulento e allo stesso tempo dissacrante così come lo è l’arte che Scarpetta porta sopra al palco e che è osservata con occhi gravidi di desiderio dal figlioccio Eduardo, che di cognome però fa De Filippo. E se si parla di eredità non si può in effetti slegare il discorso dagli eredi, che in casa di Scarpetta sono pochi mentre i figli sono tantissimi.
«Una tribù» dirà qualcuno, composta da incastri amorosi che coinvolgono sorelle, balie, amanti, unite tutte nell’accondiscendenza al quale centro rimane sempre e solo lui, Eduardo padre, capoclan, padrone di un harem al quale Martone ammicca probabilmente con un occhio un po’ troppo indulgente o quantomeno piegato in favore del suo protagonista. E sì, le cose stavano realmente così, ma il film poi lesina nel saper restituire adeguatamente quella traccia dei vari rapporti-padre figlio (nei panni di Vincenzo, primogenito riconosciuto, c’è un Eduardo Scarpetta che è un reale discendente) che eppure sono il fulcro sul quale pare impostare il centro della narrazione e della parabola dell’autore teatrale. Oppure, ancora, nel parlare più approfonditamente di questa moltitudine di donne “scarpettocentriche” (ci sono Maria Nazionale e Cristiana Dell’Anna) che tanto dolore in una condizione tale paiono patire.
Ma Qui rido io, lui solo, è la frase incisa a caratteri cubitali sul muro del ricco e kitsch Palazzo Scarpetta, costruito per ergersi sopra Napoli e per proiettare un’ombra pronta a oscurare tutto il resto. E quindi Martone su Scarpetta punta il riflettore, nel bene e nel male (in sceneggiatura collabora anche Ippolita di Majo), mentre lascia progressivamente in disparte i tre fratelli De Filippo che eppure sono la più grande, reale eredità del lavoro immenso di un artista non privo affatto di contraddizioni. Sullo sfondo intanto rimangono tinte grottesche, mentre si consuma il processo che un deriso D’Annunzio farà scattare con la causa intentata per plagio nei confronti di Scarpetta e che rappresenterà l’evento spartiacque nella vita artistica e privata del comico.
Nemmeno a dirlo, è Servillo a concedere lo spessore di un personaggio così complesso con l’ennesima performance di pregio ed estremamente plastica, reale valore aggiunto di un film che accarezza il proprio protagonista e lo pone su un trono dal quale proietta chiaroscuri a metà tra ritratto e tributo.