Nope, la recensione: Don’t look up

Nope recensione film Jordan Peele

Jordan Peele è un regista ambizioso. Nelle sue scorse uscite la struttura di genere serviva a mascherare l’esplorazione di complessi temi sociologici a lui cari. Non è un caso che si sia occupato del reboot della serie Ai confini della realtà, che pure si serviva di semplici parabole fantascientifiche per raccontare con l’arte della metafora le più profonde angosce dell’uomo del mondo post-atomico.  Anche questo suo ultimo Nope (trailer) sembra partire da una premessa molto semplice, che riecheggia numerosi blockbuster della nostra memoria cinematografica, da Lo squalo a Incontri ravvicinati del terzo tipo – fino ad arrivare, insospettabilmente, a Tremors – per poi rivelare di avere altre (e alte) aspirazioni simboliche.

James e Jill Haywood (Daniel Kaluuya e Keke Palmer) lavorano nel ranch del padre Otis (Keith David), dedicato all’addestramento di cavalli per il cinema e la televisione. In seguito a un incidente, però, il padre di famiglia muore, colpito da alcuni oggetti misteriosamente caduti dal cielo. Mentre cercano di portare avanti l’azienda di famiglia ormai sommersa dai debiti ed evitare di essere inglobati dal ranch del vicino Brian, i due notano degli strani movimenti nelle nuvole sopra la loro proprietà. Giunti alla conclusione di avere a che fare con un U.F.O., meditano di sfruttare l’avvenimento eccezionale, cercando di filmarlo e ottenere così la “svolta” che stavano cercando.

La padronanza di Peele sulla materia è indiscussa, e lo conferma come uno degli autori di punta del neo-horror americano. Le immagini memorabili fioccano quasi senza sosta – da una casa inondata da una pioggia di sangue fino alla rivelazione della natura dell’oggetto volante che minaccia la casa degli Haywood – e i primi segnali di squilibrio della vicenda vengono gestiti con eleganza e cognizione di causa dal team tecnico. C’è una buona chance che non sentirete un sonoro più immersivo e scioccante di quello di Nope in tutta questa annata cinematografica, e la fotografia plumbea di Hoyte Van Hoytema  (in IMAX) cattura il paesaggio californiano in tutta la sua desolata minacciosità. Il regista newyorkese sa bene che ciò che non si vede fa più paura di ciò che si vede, e sfrutta questa tecnica in sequenze premonitrici tese come una corda di violino. A partire dalla metà delle due ore e un quarto di film, però, si inizia a notare un leggero spostamento verso terreni più scivolosi, tematicamente e narrativamente.

Nope recensione Dasscinemag

La lettura meta-cinematografica dell’impresa dei due protagonisti inizia a diventare evidente ancora prima che venga coinvolto nella vicenda un direttore della fotografia che li aiuta a catturare la “sequenza perfetta” (il quale, neanche a dirlo, gira solo in pellicola). In una delle sezioni più brutali del film si racconta della storia di Brian (Steven Yeun), il proprietario del ranch vicino alla tenuta Haywood, che assistette da bambino alla violenta ribellione di uno scimpanzé di scena che si scagliò violentemente contro le sue co-star della sitcom Gordy’s home (in un incidente vagamente somigliante a quello dello scimpanzé Travis e Charla Nash).

Non è un caso che James e Jill siano a loro volta addestratori di animali; l’industria dello spettacolo pretende da sempre di poter controllare la natura, mediare le immagini per poter ottenere delle inquadrature perfette e spettacolari, a prescindere dai sacrifici che esse possano costare. Anche i due protagonisti inseguono questo stesso sogno, anche se su scala molto più grande; persino di fronte a una possibile invasione aliena, l’unica preoccupazione oltre a salvare la pelle è che le telecamere siano sempre accese.

Appurato questo sostrato tematico, l’impressione è che le letture metaforiche di Peele debbano ancora fare i conti con la coerenza interna che un’opera cinematografica dovrebbe avere. Nei classici che Nope cita in continuazione, i temi scaturivano naturalmente dalla narrazione, non il contrario. Qui il comportamento di numerosi personaggi sembra dettato da una necessità teorica più che drammaturgica. Anche dato per buono il livello metaforico, però, non è chiaro cosa esattamente Peele voglia comunicare facendoci identificare con la missione dei due fratelli: pure tenendo conto della loro marginalizzazione nel mondo del cinema – dovuta alle loro origini afroamericane – si fa fatica a leggere nel loro riscatto qualcosa di sostanzialmente diverso dalla sfrontatezza e dal cinismo proprie dell’industria dello spettacolo.

Come risultato il terzo atto risulta comparativamente più debole, e la tensione costruita così sapientemente nella prima parte si sgonfia (anche per via di un setpiece finale un po’ più indisciplinato di quelli che lo hanno preceduto). A livello immaginifico, Peele non ha quasi rivali, ed ha dimostrato di avere tante cose da dire. Se vorrà regalarci il futuro classico che ha sicuramente in canna, dovrà però imparare a tenere salde le redini della sua ambizione, magari preoccupandosi di raccontare “solo” una bella storia. Il resto, in mano a un talento così evidente, dovrebbe venire da sé.

Nope è al cinema dall’11 agosto.

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