Minari, la recensione: l’autentica efficacia della semplicità

Minari

Siamo spesso abituati a vedere film dalle grandi storie: vistosi, elaborati, spettacolari. Minari (trailer) sicuramente non lo è, ma è proprio questo il suo pregio: la sua capacità di esporre chiaramente un messaggio essenziale, senza bisogno di parlare ad alto volume o di articolare un discorso complesso, ma decidendo, umilmente, di affidarsi alla semplicità di un sospiro o di un dettaglio.

L’opera semiautobiografica di Lee Isaac Chung (sceneggiatore e regista) mostra la famiglia Yi (padre, madre, due bambini e la nonna materna) nell’intento di costruirsi e ritrovare la propria identità. Nel farlo, il regista coreo-americano si affida a David (un giovanissimo Alan Kim): il figlio più piccolo affetto da un problema cardiaco, a cui il film affida l’intera costruzione filmica (dall’immagine, alla fotografia poetica e fiabesca, fino alla narrazione discontinua). Tale scelta, che si sviluppa tramite soggettive più esplicite e controcampi inaspettati che trasformano David nell’artefice di ogni visione e di ogni cornice, gioca un ruolo fondamentale sull’intero portato della significazione. Infatti, il racconto, a livello sia di fabula che d’intreccio, si amalgama perfettamente non solo al carattere riflessivo e scopico del giovane protagonista, ma soprattutto allo statuto stesso dell’essere bambini.

La storia, che a livello superficiale può sembrare confusionaria e forse frettolosa, trova la sua ragione d’essere nell’impossibilità che un bambino ha di poter comprendere a pieno le situazioni che lo circondano. Si ha, così, una narrazione non lineare e unitaria, ma formata da una miriade di silenziosi momenti, che trovano la propria autenticità e potenza nel loro statuto di “dettagli”: così palpabili e ruvidi come la polvere che volteggia nell’aria nel fascio di luce mattutino, o come la mano che assapora la terra tra le proprie dita. “Terra”, parola che diventa fondamentale nel racconto di Lee Isaac Chung, proprio per il legame che archetipicamente essa instaura con il termine “radice” e con quello di “appartenenza”. Concetti universali, eppure così friabili e dissolubili, come le origini etniche di una famiglia.

Minari

Se l’etimologia stessa del titolo (“Minari”) è quella di una pianta aromatica asiatica simile al prezzemolo, possiamo allora cogliere profondamente come il regista/sceneggiatore riscontri la propria identità non nelle macrostrutture (come la lingua), ma nei piccoli dettagli (come le tradizioni culinarie), che sono quel qualcosa in più che ci rende diversi gli uni dagli altri e, dunque, utili e significanti. Principio essenziale del film stesso e di ogni essere vivente, che in questo trova la propria frangibilità, ma anche la propria ragion d’essere (come viene d’altronde marcato dal dialogo sui pulcini tra David e suo padre, interpretato da Steven Yeun). Sono le piccole cose e i dettagli a definirci e ciò ci rende estremamente vulnerabili.

Lee Isaac Chung, quindi, capisce come la complessità dell’esistenza umana si riscontri proprio nell’accettare che ciò che ci contraddistingue dagli altri è un qualcosa di piccolo e fragile come un dettaglio, come la prima corsa impacciata di un bambino che, però, proprio nella sua innocenza trova la sua maggiore forza. E, così, Minari non è un film sensazionale, ma è un film semplice, che nella sua estrema autenticità fa umilmente un passo indietro, rinunciando a un’articolazione elaborata, alla ricerca delle proprie radici, della propria famiglia. Alla ricerca di quel piccolo dettaglio che ci permetta di sentirci finalmente a casa e realmente qualcuno.

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