La donna alla finestra, la recensione del film su Netflix

La donna alla finestra su Netflix

Una delle caratteristiche del cinema postmoderno è la tendenza al pastiche, al citazionismo. Il cinema in questo senso guarda in chiave autoriflessiva il cinema del passato per giocare con le sue forme, mescolandole e ibridandole con le tecnologie e la medialità del contemporaneo. Qualcosa di simile accade nell’ultimo titolo di grande richiamo da oggi disponibile su Netflix, La donna alla finestra (The Woman in the Window, qui il trailer), tratto dall’omonimo bestseller di A. J. Finn, diretto da Joe Wright e sceneggiato dal drammaturgo Tracy Letts.

La donna alla finestra costituisce l’ultima produzione della Fox 2000 Pictures, una delle controllate della 20th Century Fox, prima della storica acquisizione di quest’ultima da parte di Disney, e racconta la storia di Anna Fox (Amy Adams), una psicologa dell’infanzia agorafobica, la cui vita viene sconvolta a seguito dell’arrivo dei Russell, i nuovi vicini dell’edificio di fronte, e dal suo assistere ad un efferato omicidio. A partire dal titolo omonimo di uno dei capolavori del noir di Fritz Lang (The Woman in the Window, 1944), il film non nasconde la sua intenzione intertestuale. Sullo schermo del televisore di Anna, infatti, una soggettiva fantasmatica mostra le immagini de La finestra sul cortile (Rear Window); più tardi Anna guarderà sullo stesso schermo la sequenza del sogno scenografata da Salvador Dalì di Io ti salverò (Spellbound). Thrilling, metacinema, Hitchcock e la psicanalisi. Il film è dunque un chiaro omaggio sul piano registico al maestro britannico del genere.

Mentre Letts si diverte a sezionare la forma novel adattandola per uno script che funziona come un orologio svizzero, Wright da parte sua filma la casa in cui Anna vive in modo da renderla un microcosmo perturbante e labirintico all’interno del quale è possibile tentare diversi percorsi e strategie di senso. Scale a chiocciola, finestre, macchine fotografiche sono invece riferimenti iconico-visivi di un preciso immaginario cinematografico che contribuiscono alla costruzione dell’atmosfera che il film vuole evocare. Il meccanismo di set up e pay off è rigorosamente puntuale nel suo rivelarsi, e il sistema delle false piste viene strutturato in modo da confondere quanto basta anche lo spettatore più esperto.

Proprio come nei testi di Hitchcock, anche qui risulta inscindibile il legame tra cinema e psicanalisi. Anna, infatti, non ha rielaborato cognitivamente i contenuti di un trauma, e la sua personale detection rende problematica la produzione di false memorie e di ricordi inaffidabili. Ancora una volta il cinema evoca i fantasmi, quelli del passato probabilmente, e il thriller costituisce l’archi-genere più adatto per affrontare il ritorno del rimosso di freudiana memoria, o l’emersione del reale sul figurale per scomodare Lacan.

Tuttavia, a fronte di un cast stellare che vanta nomi come quelli di Gary Oldman, Julienne Moore, Jennifer Jason Leigh, Anthony Mackie, Wyatt Russell e altri ancora, il film risulta essere manieristico, un esercizio di stile non all’altezza delle aspettative. Da Wright e Letts ci si aspettava qualcosa di più di un puro divertissement.

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