Kafka a Teheran, la recensione: imputati per caso

Presentato nella sezione Un Certain Regard della 76° edizione del Festival di Cannes, il film diretto da Ali Asgari e Alireza Khatami, già nel (trailer), presenta una forte componente informativa, in senso più ampio rispetto al solo intento promozionale. Tramite delle frasi ad effetto, estrapolate da alcune delle recensioni di testate giornalistiche che hanno visto il film in anteprima a Cannes e sovraimposte ai volti dei nove protagonisti del film, abbiamo già un quadro molto preciso, seppur generico, di ciò che andremo a vedere. Kafka a Teheran, dal titolo internazionale Terrestrial Verses, è un film che, anche per quanto riguarda la sua creazione, si propone come forma di denuncia esplicita, mettendo in scena delle semplici scene di vita quotidiana legate all’organizzazione amministrativa.

I due registi collaborano dopo essersi conosciuti nel 2017 alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove erano gli unici due iraniani. Il film clandestino è nato dopo che il progetto a cui Khatami aveva lavorato per anni era stato bloccato dal ministero della cultura e dell’orientamento islamico prima dell’inizio delle riprese . Con pochissimo budget, Asgari e Khatami scrivono la sceneggiatura prendendo spunto sia da alcuni episodi realmente accaduti a familiari e conoscenti, sia ispirandosi al genere classico “di dibattito” della poesia persiana. Due settimane dopo iniziano a girare il lungometraggio, nato chiaramente sotto il seme ribelle di un necessario cambio di rotta rispetto alle stringenti politiche del regime iraniano.

La componente stilistica è un altro fondamentale tassello per la buona riuscita del film che ha inizio mostrando una lunga inquadratura fissa della città, vista dall’alto, che si ricollega ad un inaspettato ed allegorico finale. Successivamente, vediamo in sequenza i vari protagonisti, posti davanti a una camera fissa, conversare con un interlocutore che rimane perennemente fuoricampo. Tutti tranne la piccola Selena, la bambina dagli sgargianti capelli rossi che vediamo ballare davanti alla macchina da presa che, solo in quel frangente, prende i connotati di uno specchio all’interno di un negozio di abbigliamento. Gli altri invece sono seduti di fronte a impiegati o possibili futuri datori di lavoro. Gli ambienti talvolta sono accoglienti: due dei protagonisti hanno davanti a loro delle bevande che, però, non osano bere oppure si trovano seduti in confortevoli poltrone che, mano a mano che la conversazione avanza, risultano essere sempre più inospitali.

I motivi che portano i nove personaggi a diventare i protagonisti di questo grido collettivo sono differenti ma sempre legati alla vita comunitaria: comprare l’uniforme scolastica (Selena), prendere la patente (Farbod), registrare il nome del figlio all’anagrafe (David). Azioni che facciamo periodicamente e che, nel nostro vissuto occidentale, possono risultane tutt’al più tediose ma che in questa rappresentazione si trasformano in uno specchio dell’operato del regime sottoforma di progressiva perdita di controllo, totale impossibilità di appellarsi ai propri diritti e di una conseguente e inevitabile (seppur quasi surreale) umiliazione.

Tra i protagonisti sono proprio le due giovani Selena e Aram che rappresentano, a modo loro, un piccolo seme di cambiamento. Nel primo caso la bambina, vestita in abiti che richiamano la cultura pop-commerciale, balla completamente alienata rispetto alle continue contrattazioni tra la commessa e la madre riguardo la sua “divisa” scolastica. Eccezionale la semplice e infantile risposta alla domanda «Come ti vedi?» della madre quando, davanti allo “specchio”, la vediamo indossare il chador: «Vedo solo un paio di occhi»; la scena si chiude con la bambina che, una volta essersi disfatta dell’uniforme, torna nella sua dimensione iniziale ballando a ritmo del motivetto che sente da un paio di cuffie rosa, luminose, a forma di orecchie di gatto.

Aram, invece, è stata convocata nell’ufficio della preside dopo che è stata vista arrivare a scuola insieme a un ragazzo che l’ha accompagnata in moto. La ragazza nega fermamente continuando però ad alimentare la conversazione che si sviluppa, così come le altre, in un continuo scendere a compromessi, creando un tira e molla sfiancante ma anche divertente per la sua dimensione, a tratti, surreale. A differenza degli altri personaggi, però, Aram esce vincitrice dalla stanza riuscendo a ribaltare completamente le dinamiche di potere quando ribatte di aver visto l’integerrima preside al parco in compagnia di qualcuno che non avrebbe dovuto essere con lei.

Una vittoria “sporca” che vede sostituire una minaccia per un’altra e che dice molto di come si vive in una realtà in cui, anche semplicemente andando a pagare una multa, vieni esposto a una serie di domande inopportune a cui non puoi sottrarti se non esercitando un qualsivoglia potere.

Il film verrà distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Academy Two a partire dal 5 ottobre.

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