Il Re Leone, tra magia del passato e tecnica del futuro

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Il Re Leone (trovate qui il trailer), in uscita in Italia il prossimo 21 agosto, è un film che sommerge sé stesso di quesiti. Qual è il momento in cui poter fare qualcosa si traduce nella necessità di doverlo fare? Come si giustifica quell’atto? Retorica. Il cinema è industria e il denaro è ciò di cui si nutre. Eppure quel tarlo retorico rimane, non convinto, non soddisfatto di questa risposta. Se nel 2019 la Disney, azienda che sta continuando a cucirsi sul petto la “C” di cinema con filo dorato, decide di far culminare un percorso di remake live-action in continuo divenire portando in sala, a distanza di venticinque anni, la rivisitazione della sua fiaba principe, si trascina dietro qualcosa che va oltre l’operazione commerciale (dagli scontati rosei esiti).

In realtà Il Re Leone dell’ormai fido disneyano Jon Favreau, che sta già invadendo alcune parti del globo, non è un live-action, bensì un certosino lavoro di tecnica fotorealistica interamente realizzato dietro lo schermo di un computer (sembrano esserci due sole riprese dal vivo che vi sfidiamo nell’impossibile impresa di scovare). E’ fuori questione rimanere impassibili di fronte ad un’opera di maestria simile, dove ogni singola inquadratura trae energica vitalità da un immaginario dal puro carattere documentaristico. La sbalorditiva resa visiva cattura l’occhio in un mondo limpido e vivido del quale ne vuoi sempre di più e in cui ti lasci sprofondare cullato dalla magnifica colonna sonora di Hans Zimmer. Osservi i corpi perfetti (a volte anche troppo) sullo schermo e finisci per sperare che non aprano mai la bocca smontando la potenza della loro presenza scenica, ma che risolvano dispute e controversie nell’intrecciarsi dei soli sguardi e ruggiti.

Difatti il peccato originale della pellicola (provocatorio mai più di ora definirlo in questo modo) è nella quasi totale dissociazione emotiva che la scelta del fotorealismo conduce a subire nel vedere una iena o un suricato parlare. Tutti i protagonisti de Il Re Leone, rimasto sostanzialmente invariato nonostante la durata si dilati di circa una mezz’ora rispetto l’originale, non traggono alcun beneficio caratteriale dalla modellazione realistica (fatta eccezione per Scar), che anzi conduce ad un coinvolgimento anticlimatico nell’alternarsi delle sequenze dialogo/documentario. Rinunciando ad una sostanziale caratterizzazione dei volti degli animali anche parzialmente antropomorfa, si consuma uno strappo netto con la magia che pervadeva i pittoreschi personaggi del film d’animazione del 1994 (a farne le spese in particolar modo è Timon).

La sottrazione della carica finzionale non restituisce l’emozione originale, e se in superficie il fatto assume i tratti di uno scacco nei confronti di sé stessi, questa destrutturazione del proprio canone sembra celare un grido viscerale che avverte: “sappiate che il futuro passa da qui, oggi, attraverso un sorpasso definitivo sul passato”. Nel 2019 Il Re Leone non appare interessato, di fondo, ad occupare la stessa posizione di riscoperta dei suoi fratelli minori live-action (Aladdin, Dumbo, ecc.), piuttosto va a porsi come chiave di volta dove il racconto e le narrazioni visive assumono contorni sempre più sfumati nella mescolanza tra finzione e realtà.

Quindi è qui che la domanda che oscilla tra potere e dovere si carica di significato: essere in grado di fare, possedere mezzi e conoscenze, considerano intrinseca la giustificazione a compiere l’atto, pur apparentemente creativo che fosse? D’altronde la discussione è più fertile e calda che mai, a tratti inquietante, basti pensare alle recenti riflessioni sulla diffusione dell’utilizzo della controversa tecnica del “deepfake”. Da bravi spettatori staremo a vedere, un po’ incuriositi, un po’ spaventati.

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