I giganti, recensione: La grande abbuffata di Bonifacio Angius

I giganti (trailer) è il nuovo film di Bonifacio Angius distribuito a partire dal 21 ottobre in sala da Il Monello Film e Coccinelle Film, dopo la presentazione in concorso all’ultimo festival di Locarno (dove era anche l’unico titolo nostrano a concorrere per il Pardo d’oro). Il film, come il penultimo e convincente Ovunque proteggimi, si apre con una voice over dello stesso regista, qui anche attore insieme a Stefano Deffenu, i fratelli Manca (Pino e gli anticorpi) e Riccardo Bombagi. Subito viene delineato il nodo chiave della trama, di questa rimpatriata tra vecchi amici in campagna a base di alcool e droghe, ed è qualcosa che ad ognuno dei protagonisti manca.

Angius si ispira e ribalta il Ferreri de La grande abbuffata (come già anche altre recensioni giustamente sottolineano), immergendo cinque “reietti” all’interno di un’esperienza che finisce per sprofondare oltre il baratro. I cinque “giganti” non sono altro che uomini dimenticati dalla società, chi per motivi d’amore (come Stefanino) chi per motivi economici o, in futuro, giudiziari. È un’umanità di quelle sconosciute quella messa in scena da Angius, che grazie all’abuso di droghe e alcool regredirà fino all’istinto più brutale, rabbioso, violento (<<o ti droghi o ti masturbi>> dirà Massimo, il personaggio interpretato da Angius).

i giganti

Proprio lo stesso regista, come nella videointervista per il festival di Locarno, ha sottolineato quanto questa regressione sia strettamente collegata ad un astuto ricorso al genere. I dialoghi si succedono con la freddezza di un colpo di pistola, con l’immediatezza dell’azione di alcuni western. Sono frasi per lo più vuote, disconnesse, quelle che ascoltiamo, lontane da qualsiasi logica. Forse anche deliri d’onnipotenza, come quelli del giovane Riccardo (<<sono un pellicano reale! […] sono come i giganti di Mont’e Prama!>>).

Angius in questo nuovo ritratto disilluso si destreggia allora, affonda il piede in questa “novella, poemetto” a cui se ci credi sei “fritto”, perché è tutto falso; un ritratto in cui manca l’amore ma se ne sente la presenza, come se in realtà questo film simboleggiasse il contrario rispetto a ciò che mostra. E allora ha più senso un sottile gioco di luce che sfuma il contrasto, quella sottile linea impercettibile, tra le mille ombre e la fioca luce che penetra dalle finestre socchiuse. D’altronde lo stesso Stefanino lo dirà: <<Ci sono persone che dicono di fare una cosa e poi ne fanno un’altra […] io non sono quello che dico, né quello che faccio>>.

Ed è in quel preciso istante che forse sopraggiunge il senso de I giganti, uno dei tanti. Il regista sardo con questo film decide di dar vita all’inutilità della vita stessa. Decide di dar vita al coraggio, o alla codardia, che questi cinque elementi inseguono nel rinchiudersi lontano dalla società dal movimento ordinario, ciclico, della vita (l’urlo in faccia a quel funerale che passa sullo sfondo). È un cinema quello di Angius che costantemente si contraddice, ma che in fondo cela una potenza viscerale, disperata ma, in un certo senso, raggiante.

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