Ghost in the Shell, la recensione del film sci-fi con Scarlett Johansson

Ghost in the Shell

Ghost in the Shell (qui il trailer), diretto da Rupert Sanders e uscito nel 2017, è l’adattamento in live-action dell’omonimo manga di Masamune Shirow. Nel lontano 1995 fu già tratto dal manga un fortunatissimo film d’animazione diretto da Mamoru Oshii, che segnò un vero punto di svolta nella storia del cinema fantascientifico, ispirando non solo Avatar di James Cameron, ma anche, e soprattutto, Matrix, delle Sorelle Wachowski.

Dal momento in cui le prime righe del testo d’apertura compaiono sullo schermo, risulta chiaro che questa nuova versione di Ghost in the Shell sarà ricca di sorprese. Sorprese pessime.

Il primo elemento della pellicola che salta all’occhio è Scarlett Johansson, legnosa come non mai nei panni del Maggiore Mira Killian, eroina action Hollywoodiana del tipo più trito, puntualmente in cerca di vendetta e di risposte. Nonostante ciò, rimane la migliore interprete in un cast di personaggi insignificanti, vacui e senza alcun peso nella dinamica del plot centrale, se di “personaggi” si può effettivamente parlare. Nessuno tra i comprimari possiede un arco narrativo completo o soddisfacente, e alcuni di loro non hanno addirittura motivo di esistere: ciò annulla inevitabilmente qualunque occasione che gli interpreti avrebbero potuto avere per svolgere bene il loro mestiere. Una speciale nota di demerito va a Peter Ferdinando e alla sua grottesca mimica facciale, per aver portato sugli schermi uno degli antagonisti meno minacciosi della storia della Settima Arte.

Ghost in the Shell

Purtroppo, i problemi di Ghost in the Shell non si fermano qui. Il comparto tecnico ed artistico della pellicola è anonimo tanto quanto lo script (a cura di Jamie Moss, William Wheeler, Ehren Kruger), se non di più. Un lavoro di computer grafica decisamente sotto la media dà vita ad ambientazioni talmente generiche da ricordare un pessimo videogioco, fin troppo finte per poter sembrare minimamente convincenti. Luoghi esteticamente monotoni in cui i colori blu e violetto dominano su tutto, votati all’implementazione di ogni singolo cliché del genere cyberpunk, a prescindere dalla presenza o meno di circostanze appropriate. Gli unici cinque segmenti esteticamente piacevoli di tutto il film sono fotocopiati inquadratura per inquadratura dall’originale Ghost in The Shell di Mamoru Oshii. Un risultato oltremodo insufficiente, soprattutto se messo a confronto con la magistrale mescolanza di effetti speciali pratici e computer grafica del coevo Blade Runner 2049, o con la memorabile identità visiva del film originale.

L’insulto finale della pellicola sta nella colonna sonora, praticamente inesistente. Non c’è un solo leitmotiv capace di rimanere impresso nella mente dello spettatore, e la decisione di omettere gli iconici cori di Kenji Kawai per riservarli ai soli titoli di coda non ha fatto altro che indebolire ancor più del necessario la già fiacchissima esperienza.

Ghost in the Shell non è memorabile, non è stimolante, non è originale (nonostante le numerose differenze con la controparte animata), ma soprattutto, non è importante. È semplicemente l’ennesimo, noioso remake Hollywoodiano. Un film senza anima, senza scopo e senza personalità che, secondo l’opinione di chi scrive, era destinato a cadere nel dimenticatoio ancor prima del suo arrivo sugli schermi.

Ghost in The Shell è ora disponibile in streaming su Amazon Prime Video.

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