Decision to Leave, la recensione: l’inetto è uomo e l’onnipresente è donna

decision to leave

Animato da un lirico pessimismo cosmico, caratterizzante gran parte della filmografia del regista sudcoreano, Decision to Leave (trailer) di Park Chan-wook è uno spietato neo noir dagli echi hitchcockiani che dichiara il definitivo annientamento dell’essere umano contemporaneo. L’infallibile detective Jang Hae-joon (Park Hae-il) indaga il misterioso omicidio ai piedi di una montagna dello scalatore Gi Do-soo (Yoo Seung-mok); innamoratosi della seducente sospettata e moglie del defunto, Song Seo-rae (Tang Wei), l’investigatore precipita inevitabilmente in una spirale vertiginosa di ossessioni e indugi.

Il film è lineare e compiuto per quanto concerne trama e risvolti. Eppure, ancor prima della sua parvenza romance, l’autoriale Decision to Leave racconta anzitutto un’incomunicabilità mascherata da donna e i suoi effetti decisivi sulla fragile mascolinità. Jang Hae-joon accompagna sì lo spettatore nello sciogliersi del puzzle, ma è Song Seo-rae il vero elemento trainante la storia che fa luce sulle contraddizioni insite nel presunto protagonista. Ella non è di per sé un suo alleato o nemesi, bensì un fantasma localizzabile nei ricordi e nell’errare di Jang Hae-joon. La sua presenza è tanto pericolosa, come la femme fatale di un noir alla Humphrey Bogart, quanto distruttiva, come l’onnipresenza di Rebecca in Rebecca – La prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock.

Song Seo-rae agisce laddove Jang Hae-joon si limita voyeuristicamente a osservare e ad implodere nella sua totale inettitudine. L’odierno contesto mediale, animato da dispositivi sempre accesi e curiosi, ha così tanto plasmato il detective al punto da proiettarlo laddove fisicamente non potrebbe mai avere accesso. In questo scenario, la mente viaggia e il desiderio carnale dell’uomo si sposa con l’illusione di essere oltre quella finestra. L’investigatore protagonista non è certo impossibilitato a muoversi come Jefferies ne La finestra sul cortile (1954) di Hitchcock, ma la sua passività lo pervade fino a renderlo un automa che rimembra o immagina vittorie che al contempo sono fallimenti: il protagonista ripensa a quando poteva salvare un criminale suicida precedentemente in fuga sui tetti di Seul; immagina un appuntamento con la bellissima sospettata che mai bacerà.

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Il maschio di Park Chan-wookè un goffo schiavo delle sue fantasie, sempre pronto a spiare con lo sguardo e coi devices ma mai in grado di agire per la verità. La donna in tal senso è lo specchio dell’inadeguatezza del detective, o anche quello che lui non sarà mai. E ancora, Jang Hae-joon si arrampica sulla cima della montagna dove è avvenuto il chiacchierato suicidio di Gi Do-soo e, proprio come il signor De Winter dell’Hitchcock 1940, si augura di essere abbracciato da quel malefico mare “donna” che alla fine lo ha piegato alla sua volontà.

La messa in scena del Maestro riproduce lo scandaglio emotivo e sensoriale del maschio, regalandoci un montaggio incalzante che riproduce il sovraccarico di stimoli fagocitato dai dispositivi e dalla società contemporanei. L’editing satura dunque le situazioni e diventa il riflesso della mente in subbuglio di un protagonista perennemente indeciso. Compito di Park Chan-wook è pertanto frustrare lo spettatore a qualunque costo, riproducendo addirittura l’apparente nulla. Nella scena del primo interrogatorio, ad esempio, l’inquadratura di un’innocente scatola di sushi, su cui sembrano disegnati una montagna e il mare, diventa il pretesto per raccontare due personalità agli antipodi; questa si mischia con i campi e i controcampi entro e oltre il vetro della stanza dell’interrogatorio, producendo così una voluta confusione di spazi e punti di vista.

Il caos calmo del regista si rivede poi nelle performance straordinarie di Park Hae-ile Tang Wei. In particolare, quest’ultima è capace di regalare una prestazione ricca nella sua quiete: il suo personaggio condensa infatti, da un lato, il desiderio maschile di vedere oltre velo – un po’ come la Gilda dell’omonimo film (1946) di Charles Vidor – e, dall’altro, la perversione masochista di essere l’oggetto della manipolazione – un po’ come la Catherine Tramell di Basic Instinct (1992) di Paul Verhoeven. Attraverso il barcamenarsi dei poli di uomo e donna, Decision to Leave esplode infine le inettitudini dell’uomo e l’onnipresenza castrante della donna.

Il film è al cinema dal 2 febbraio.

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