Volto di donna, la femme fatale di George Cukor 80 anni dopo

Volto di donna, l'anniversario del film di George Cukor

Quando arriva il momento di celebrare film del passato, il cinema noir sa sempre come soddisfare il proprio pubblico. Tra donne e uomini senza scrupolo, la narrazione attraversa i ricordi frammentati dei personaggi, volutamente omessi, storie che potevano far accapponare la pelle o che semplicemente potessero manifestare i desideri più reconditi della società. Oggi è il giorno perfetto per celebrare Volto di donna, il film di George Cukor, nel suo ottantesimo anniversario.

È il 1941, siamo nell’anno della nascita di questo tenebroso filone: dai libri di psicanalisi emergono protagonisti che cercano di esorcizzare le incertezze della vita rivelando misteri, commettendo omicidi, truffando il prossimo. L’uomo rivela, la donna attacca: forse viene domata, forse incontra la morte. Questa di donna, Anna Holm (Joan Crawford), ha commesso il più grande affronto nei confronti di una società superficiale, quello di avere una cicatrice sul volto, quello di essere un mostro. L’unica via per sopravvivere in un mondo che non vede oltre l’estetica è quello di diventare una criminale: ma le sue truffe culmineranno in un duplice incontro, un bivio le cui direzioni sono o la perdizone o la rendenzione.

In un film che diventa sede di grandi passioni, Cukor, grazie all’abile scrittura di Donald Ogden Stewart ed Elliot Paul, ci mostra una storia già compiuta, tutta ricordata all’interno dell’aula di un tribunale dove i fatti emergono sotto forma di flashback, in puro stile noir, nell’interruzione di quella linearità diegetica che aveva sempre caratterizzato il cinema classico americano. Anna, cercando di estorcere denaro da Vera (Osa Massen), della quale aveva ritrovato lettere d’amore indirizzate ad un uomo diverso dal marito, verrà colta proprio da quest’ultimo nell’atto fittizio di derubare sotto il tetto coniugale. Ma agli occhi della scienza non ci saranno cappelli posti a tre quarti né voluminosi ciuffi che potranno nascondere la sua pecca. Le linee nette d’ombra, figlie dell’espressionismo, vengono debellate da colui che potrà donarle ciò che aveva sempre voluto: la bellezza.

Particolarità del film noir è quella di mettere davanti al suo pubblico dei personaggi tanto semplici quanto complessi, immediatamente riconoscibili e schematizzati, ma che rientrano nella creazione di un microcosmo che racchiude in sé tutto ciò di cui si ha bisogno per conoscere il mondo. In Volto di donna, abbiamo Anna, la (quasi) femme fatale, segnata in viso e derisa da chi le sta attorno; Vera Segert, colei che dovrebbe rappresentare il suo opposto, la donna sposata e virtuosa, che si rivela non migliore di molte altre, in una totale sfiducia nel genere femminile. Sarebbe infatti più assimilabile alla kept woman, colei che fa della sua bellezza un talento, per godere di un matrimonio vantaggioso; il dottor Gustaf Segert (Melvyn Douglas), freddo uomo di scienza ma che nasconde in sé un affetto profondo, inizialmente mal riposto, è contrappunto per la presenza di Torsten Barring (Conrad Veirdt), diabolico uomo in cui Anna vedrà la sua anima gemella, obnubilata da un sentimento mai provato prima e, per questo, disastroso.

La figura della donna è costante sede di dibattito, che secolo dopo secolo diviene contenitore di colpe, un vaso di Pandora che nessuno vorrebbe mai aprire ma ben troppo dirompente perché non possa esplodere da sé. Il cinema noir non faceva altro che cercare di chiudere sempre di più questo vaso straripante, rendendo la figura femminile portatrice di una colpa, causa di un timore. Le teorie femministe analizzano in lungo e in largo queste donne dall’animo oscuro, che agli occhi di noi contemporanei sembrano semplicemente donne con la “colpa” di amare le stesse cose degli uomini: i soldi, il sesso e l’alcool. Il desiderio di indipendenza può solo sfociare nel raggirare la figura maschile, poiché unico modo per vivere libere. Forse molto più femministe di quel che si possa credere, vicine a quella che è la feminist third wave, dove le donne si riappropriano della propria immagine e della propria sessualità, le femme fatale erano avanti anni luce.

Anna truffa: lo fa perché un incidente quando era piccola l’aveva privata dell’unico mezzo che la donna aveva per potersi sostenere, il suo sex appeal. Ricordiamoci che era il 1941: il desiderio d’indipendenza e l’effettiva realizzazione di esso emarginavano la donna, la cui ambizione più grande poteva essere il matrimonio, se non per intimo desiderio, per pura sopravvivenza. Ma si può restar certi del fatto che la narrazione punirà la donna per questo: o con la morte, perché ormai troppo in là nella perdizione, o con il matrimonio, ultimo spiraglio di speranza per la sua redenzione.  

Una volta riemerso dalla derisione, il viso di Anna diviene fonte di preoccupazione per il dottor Segert, cosciente d’aver creato un mostro, il suo personalissimo Frankenstein (e chi altro avrebbe potuto essere, data la paura di Anna per il fuoco?). È in questo esatto momento che la nostra femme diventa fatale.

Solo un uomo aveva risvegliato l’interesse della donna, poiché cieco davanti a quella malformazione: Torsten dimostrerà di avere un cuore velenoso quanto il suo, un’accoppiata che diventa letale, dove la brama del denaro e il desiderio amoroso si fonderanno, rendendo indistinguibile l’uno dall’altro. Torsten è un personaggio molto interessante, definibile homme fatale, un uomo la cui cupidigia muove ogni singola azione, soprattutto in termini affettivi. La seduzione che caratterizza la femme fatale si sposta sul piano maschile: egli si prende gioco di una donna che vive un disagio, sia esso sociale o fisico. Torsten coinvolgerà Anna nel suo piano di uccidere il nipotino, per diventare unico erede del patrimonio milionario di suo zio. Ma a risvegliare Anna da questo incubo che era durato tutta una vita è l’affetto che il piccolo dimostrerà nei suoi confronti: il film si aggrappa all’istinto materno, in modo quasi primordiale, per ricondurre la donna sulla retta via.

I desideri di Anna sono ciò che la società attuale cerca di combattere: il valore personale derivato da una piacenza estetica stereotipata. È vero, un film del 1941 difficilmente parlerà alla coscienza del cittadino globalizzato del 2021, o meglio, non ci riuscirà secondo le intenzioni originali (e se lo fa, magari c’è qualche problema da affrontare): eppure le narrazioni sapienti rimangono tali, resistono al tempo ed anzi, diventano fonte di riflessioni sempre nuove.  

Volto di donna, con il suo impeccabile bianco e nero e quell’accento proveniente da un mondo tanto fittizio quanto reale, dà una complessa visione dell’uomo e della donna, di un’ossessione distruttiva, dell’illusione di un amore.

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