#ROMAFF15: Fireball, la recensione

Fireball

Werner Herzog è uno di quei pochi registi capaci di ridare vita all’ordinario e trasformarlo in straordinario. Ogni suo nuovo viaggio sembra estendere ancora di più gli orizzonti di un cinema che non vuole conoscere limiti, che in ogni sua reincarnazione vuole sempre spingersi più in là, oltre lo spazio stesso dell’immagine. Sembra emergere ancora una volta questo con l’ultimo Fireball: Visitors from Darker Worlds (trailer), che vede anche il ritorno alla collaborazione con Clive Oppenheimer, vulcanologo e anche qui co-regista come fu per Into the Inferno, il documentario del 2016 realizzato in collaborazione con Netflix. Stavolta i due cambiano argomento – gli asteroidi – e trovano l’appoggio della Apple, che distribuirà a dicembre il film sulle proprie piattaforme. Fireball, dispiace constatare, all’interno di questa Festa ha un primato: è l’unico film a non essere stato proiettato in sala.

Conoscendo Herzog, cosa sono gli asteroidi se non un’occasione per parlare di altro? Dopo aver presentato una serie di situazioni dove gli asteroidi hanno ridisegnato l’immagine della terra, Herzog inizia ad approfondire questi fenomeni grazie alla “memoria culturale” – al rapporto che le culture dei luoghi interrogati (Messico, Australia, India, ecc.) hanno instaurato con questi eventi, dalle letture religiose a quelle scientifiche. E proprio qui si gioca lo “scarto”, la firma autoriale di Werner Herzog, perché le varie testimonianze che ascoltiamo sono il punto di partenza per una riflessione (affidata ancora al riconoscibile timbro della voce di Herzog) che finisce per collegarle tutte. Una progressiva sottrazione delle particolarità di ogni singola vicenda che diventa memoria culturale universale, che ci riconduca ad uno stupore condiviso, prima accennato da Frate Guy – il frate scienziato ospitato dall’osservatorio vicino Lago Albano – e poi materializzato nella sequenza dove Oppenheimer trova un residuo di asteroide in Antartide.

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Lo stile di Herzog, però, ha ancora qualcosa da dire. Oltre alle splendide riprese capaci di far percepire la bellezza e l’immensità di qualsiasi paesaggio (e ribadiamo: che peccato non averlo visto in sala) è il montaggio a lasciare il segno in quest’opera. In ogni stacco, in ogni commento della voice-over riverbera il “fare cinema” del regista tedesco – il dare, appunto, vita allo straordinario da immagini perlopiù ordinarie (per quanto clip come quella dell’equipe coreana dove viene abbracciato il cameraman siano già straordinarie). Un “fare cinema” che emerge anche nei vari richiami disseminati lungo il film a sue opere passate: l’utilizzo della musica sarda (L’ignoto spazio profondo) o le riprese in auto e prive di presenza umana nella regione dello Yucatan (Fata Morgana).

In conclusione, Fireball, pur avendo qualche momento debole, è un film che vale la pena recuperare. Un ulteriore arricchimento di una filmografia da incorniciare per la sua continua evoluzione e la sua costante incidenza sul panorama cinematografico contemporaneo.

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