Profeti, la recensione: un confronto monotonale

Profeti recensione film Alessio Cremonini

Prima la pandemia da Covid-19, poi il conflitto russo-ucraino e le barbarie dell’autoproclamato Stato islamico, o che Daesh si voglia, appaiono già come uno sfocato ricordo in lontananza. Sono passati in realtà meno di dieci anni da quando l’organizzazione terroristica ha inondato con pagine di sangue e dolore la cronaca di tutto il mondo, e meno di quattro ne sono trascorsi dall’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, il noto leader dell’ISIS. In realtà il Califfato, nonostante le significative contrazioni del territorio controllato, resta ancora lì, annidato soprattutto tra Iraq e Siria. Su questa realtà torna a puntare i riflettori Profeti (trailer), il nuovo film di Alessio Cremonini, che ritroviamo alla regia per la prima volta dopo il suo apprezzato esordio con Sulla mia pelle.

Quella di Cremonini è però un’indagine che l’autore, che qui scrive in sceneggiatura assieme a Monica Zapelli, sceglie di cogliere attraverso gli occhi delle donne, le prime vittime di un fondamentalismo religioso che prima di uccidere prova a indottrinare, limitare le libertà personali e sottomettere. Continuiamo ad ascoltare anche questo nella cronaca: la condizione femminile in Afghanistan e in Iran sono una costante testimonianza. Il film di Cremonini si apre con Sara (Jasmine Trinca), giornalista nei teatri di guerra della Siria, mentre intervista una combattente della milizia curda, uno dei celebri pilastri della resistenza a Daesh durante gli anni caldi del Califfato – l’assedio a Kobane è del 2015, anno di ambientazione del film.

Durante uno spostamento notturno la giornalista viene rapita assieme al cameramen e alla sua scorta. Da qui lo spostamento in un campo di prigionia all’altro, fin quando non è rinchiusa nella casa della moglie di uno dei combattenti. Profeti è un film che tenta di sussistere sui contrasti, sulla messa in confronto. Il primo sta proprio qui, in questa piccola abitazione all’esterno fatta di pareti decadenti, anonime, in piena sintonia con l’arido e inospitale luogo che la circonda dove si stagliano solo uomini armati fino ai denti, fuoristrada e posti di blocco. All’interno, invece, è come se si ritrovasse il senso della civiltà. Un arredamento abbastanza curato, credenze con farina e spezie, una piccola libreria, una stanza da letto con coperte dai colori vivaci, un bagno con vasca. Un’oasi impensabile, quasi un miraggio.

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E poi eccolo il secondo contrasto, quello su cui monta e poi sulla lunga arena tutto il film. Nur (Isabella Nefar), la giovane moglie del soldato destinato a farsi martire, una foreign fighter che ha abbandonato la sua vita londinese per seguire quest’uomo radicalizzato nel bel mezzo del nulla. Perché l’ha fatto? Cosa la spinge a trovare devozione in una fede e in una causa che fino a qualche tempo prima le erano sconosciute? Come fa ad accettare la sua reclusione con cieca fiducia nelle parole del marito, anche quando la notte cadono le bombe a pochi metri di distanza o quando di giorno un prigioniero urla in preda alla tortura all’esterno della casa? Nello iato in apparenza incolmabile che separa le due donne pare volersi insinuare Profeti, che le chiama all’interazione, che le fa dialogare a partire dalla distanza che le caratterizza. L’una è una donna occidentale indipendente e dedita al suo lavoro, senza marito e che non vuole figli, l’altra un’estensione del volere del compagno e del leader.

Ma è qui che la pellicola di Cremonini non trova mai davvero il centro di un discorso che parte dagli estremi e procede in maniera troppo programmatica per tesi. Tutte le discussioni che tra le due si instaurano graffiano la parvenza della riflessione filosofica salvo poi rimanere nella circostanza, nel dato di fatto che non si concentra né sul senso dell’asfittico, né sulla primitiva brutalità del Califfato, né sulle implicazioni del ruolo di giornalista di Sara. Viene anche da chiedersi, per un istante, se lo scindere il sangue dal territorio (il film è stato girato nei brulli territori della Puglia) aiuti nel processo di elaborazione delle illogicità che Profeti vuole avvicinare.

L’intento di superficie su cui si basa questo rapporto di convivenza forzata è cercare l’equidistanza, il minor giudizio possibile sulla posizione della conversione di Nur o sulle meno che accennate psicosi da cattività a cui è soggetta Sara. Eppure è tutto così abbozzato da non uscire mai fuori dall’odore di una retorica che pare infine ricondursi a un giusto e sbagliato che tradisce le sfumature e palesa la linea piatta di un confronto colpevolmente monotonale.

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